Dibattito negli Usa: Biden ribalterà davvero la politica commerciale di Trump in caso di vittoria? C’è chi pensa di no negli Stati Uniti. Ecco perché
Qualora Donald Trump non fosse rieletto, che ne sarà dei dazi che in questi tre anni e mezzo il tycoon ha elevato contro amici e avversari, a partire dal rivale cinese?
La risposta è meno scontata di quanto si potrebbe desumere dagli aggettivi che il senatore Biden ha usato per indicare i dazi durante questi anni (“dannosi”, “disastrosi”, “incauti”).
IN PASSATO BIDEN HA DEFINITO I DAZI “DANNOSI”, “DISASTROSI”, “INCAUTI”
La verità è che su questa questione un eventuale presidente Biden dovrebbe vedersela con i Big e la base del suo partito, che non sono affatto allineate alle idee dell’ex vicepresidente sul commercio.
È vero che, a differenza del Partito Repubblicano, che abbracciando l’agenda “America First” di Trump ha ripudiato il libero commercio, i Democratici sono ancora considerati i campioni del libero scambio.
Ma il partito Democratico è anche il partito tallonato dai sindacati che vogliono proteggere il lavoro e pretendono più investimenti in infrastrutture, ed è anche il partito dove abbondano i militanti che pretendono dalla politica azioni in materia di cambiamento climatico o abbassamento del prezzo dei farmaci.
IL. PARTITO DEMOCRATICO E’ ANCORA IL CAMPIONE DEL LIBERO SCAMBIO, MA E’ ANCHE TALLONATO DA SINDACATI CHE VOGLIONO PROTEGGERE IL LAVORO
Il risultato sarà che Biden, sempre se eletto, dovrà vedersela con una moltitudine di interessi e rivendicazioni ramificate e diversificate che potrebbe costringerlo a mantenere in piedi i dazi trumpiani.
“Non è chiaro come troverà un equilibrio tra queste diverse forze”, sottolinea ad esempio Mary Lovely, docente alla Syracuse University.
“NON E’ CHIARO COME BIDEN TROVERA’ UN EQUILIBRIO TRA LE DIVERSE FORZE”, AFFERMA MARY LOVELY (SYRACUSE UNIVERSITY)
Nel corso della sua parabola, Trump ha elevato dazi su 370 miliardi di dollari di merci cinesi, ma non si è astenuto dal colpire l’Unione Europea con dazi su alluminio, lavatrici e pannelli solari per un ammontare di 12 miliardi circa.
Il risultato, valutato ad oggi, è che il deficit si era inizialmente contratto, salvo tornare negli ultimi mesi alle vette delle fasi precedenti: l’ultimo dato a disposizione, quello di luglio, parla di un deficit a circa 63 miliardi di dollari, il più alto da dodici anni a questa parte.
In un simile scenario, gli analisti ritengono che Biden avrà le mani legate e sarà costretto a mantenere i dazi.
COL DEFICIT RITORNATO AI PICCHI DI 12 ANNI FA, BIDEN POTREBBE AVERE LE MANI LEGATE, DICONO GLI ANALISTI
“Io non vedo una situazione in cui Biden arriva lì e nei primi sei mesi toglie quei dazi”, spiega Nathan Sheets, una ex sottosegretaria di Obama con una lunga esperienza di trattative con la Cina alle spalle.
C’è un altro motivo per cui Biden molto probabilmente non farà nulla: le tensioni con la Cina, che in questo momento sono così forti da sconsigliare ogni mossa unilaterale, ma che godono anche di grande popolarità in patria, persino tra le fila del partito di Biden.
“L’attuale clima politico”, sottolinea infatti Sheets, “tanto al centro quanto alla destra e alla sinistra richiede di essere duri con la Cina”.
SIA A DESTRA CHE A SINISTRA DOMINANO UMORI ANTI-CINESI
Tutto questo potrebbe confliggere con l’indole di Biden, che ha un pedigree di tutto rispetto come liberoscambista ortodosso: lo è stato nei decenni passati in Senato, e lo ha dimostrato partecipando alla nascita del Nafta e spingendo per l’ingresso della Cina nel Wto.
Quando ha avuto l’onore di essere il n. 2 di Obama, Biden è stato anche un vocale sostenitore dei due accordi di libero scambio – il TTP e il TTIP – che poi Trump ha affossato nei primi giorni della sua presidenza.
Questi pregressi lo esporranno alle critiche di chi lo considera “soft on China” o pronto a far migrare altri posti di lavoro americani all’estero.
BIDEN NON E’ CONTRARIO IN LINEA DI PRINCIPIO AL PROTEZIONISMO, “MA SOLO QUANDO VE NE E’ LA VERA NECESSITA'”
Biden tuttavia ha già chiarito in diverse occasioni di non essere affatto contrario ai dazi e a una dose ancorché minima di protezionismo, “ma solo quando ve ne è la vera necessità”.
A maggio ad esempio, in una lettera rivolta ai sindacati dell’acciaio, ha scritto che “ricorrerò ai dazi quando sarà necessario, ma la differenza tra me e Trump è che io avrò una strategia”.
Il programma economico “Made in America” scritto dal suo team prevede inoltre il ricorso a dazi per penalizzare le economie che fanno un uso intenso del carbone.
Nel programma sono inoltre previste “azioni di aggressivo enforcing commerciale” contro quei paesi che adottano pratiche commerciali scorrette, ossia sussidi, eccesso di intervento statale e tutti i peccati capitali solitamente attribuiti alla Cina.
L’unico scostamento effettivo che si avrà con la condotta di Trump, prevedono alcuni esperti, sarà dunque nello stile di conduzione delle trattative con la Cina, che Biden molto probabilmente deciderà di gestire in coordinamento con i partner dell’America.
Ciò significa, in poche parole, lavorare con l’Europa o il Giappone affinché la Cina rinunci alle pratiche non di mercato e agli abusi come il furto di tecnologia di cui è sovente accusata e che hanno causato la furia dei trumpiani.
Nel farlo, tuttavia, Biden potrebbe non rinunciare al cannone puntato dei dazi. Così almeno è convinto Jon Lieber, managing director della società di consulenza Eurasia Group, per il quale “barriere basse per la Cina sarebbero del tutto incoerenti con quell’obiettivo”.
E dunque sì, il giorno delle elezioni il prossimo 3 novembre in America cambierà probabilmente tutto, ma ai cinesi potrebbe non piacere.