Perché il braccio di ferro tra Usa e Iran caratterizzerà anche il 2020, sebbene l’esito sia tutt’altro che predestinato. Il Punto di Marco Orioles
Il segnale che in Iraq è successo qualcosa di molto grave per gli Usa a cavallo di capodanno è arrivato nel pomeriggio di ieri, quando il portavoce del Segretario di Stato Mike Pompeo ha reso noto che il suo capo aveva deciso improvvisamente di cancellare il suo viaggio programmato a Kiev – che sarebbe stato, come hanno osservato molti in queste ore, il primo passaggio di un top leader Usa in Ucraina da quando, nel settembre scorso, a Washington è iniziata la saga dell’impeachment del presidente Trump.
L’assedio dell’ambasciata Usa a Baghdad da parte di un agguerrito manipolo di miliziani iracheni fedeli all’Iran, del resto, non è avvenimento che un capo della diplomazia a stelle strisce può sottovalutare, specie se il capo in questione deve parte della sua fama alle critiche ferrate rivolte al suo predecessore Dem, Hillary Clinton, per il triste caso dell’assalto all’ambasciata di Bengasi che nel 2012 non solo costò la vita all’ambasciatore Stevens, ma tanti guai avrebbe procurato alla futura candidata alla Casa Bianca.
Sta di fatto che quanto accaduto tra martedì e ieri nei pressi dell’ambasciata Usa di Baghdad rappresenta un segnale inquietante per il governo americano e segnatamente per la sua politica estera così concentrata, per quanto concerne il Medio Oriente, sull’esercizio della “massima pressione” nei confronti della Repubblica Islamica.
Un approccio che ha attirato all’amministrazione Trump molti critici, che dai fatti delle scorse ore avranno ricavato la più cupa conferma della linea pericolosa assunta dalla superpotenza a stelle e strisce nei confronti di un nemico come l’Iran che, lottando per la sopravvivenza, è disposto ad assumersi rischi fatali.
In questo senso, il bombardamento con cui l’aviazione Usa ha preso di mira sabato scorso sei basi in Iraq e Siria della milizia filo-iraniana Kataib Hezbollah, causando una ventina di vittime, è qualcosa che gli ayatollah non potevano lasciare senza risposta.
Poco importava, dal loro punto di vista. che quegli strike fossero stati presentati dal “Grande Satana” come la sua legittima reazione ai razzi lanciati 24 ore prima da Kataib Hezbollah contro una base militare irachena – bilancio: un contractor americano ucciso – o, meglio, come la risposta del governo americano all’ultimo di una serie di attacchi messi a segno dalle milizie pro-Iran contro basi irachene – i media internazionali ne contano 11 – che ospitano truppe Usa.
L’affronto andava lavato, e il metodo scelto dalla Repubblica Islamica non poteva essere più simbolico: una riedizione del famoso assedio dell’ambasciata di Teheran che, avvenuto all’alba della rivoluzione khomeinista, sancì l’inizio di una danza della guerra tra Usa e Iran che procede incessantemente da più di 40 anni.
Come racconta il New York Times, poche ore mancavano alla mezzanotte del 31 dicembre quando migliaia di manifestanti, che più tardi si scoprirà essere in gran parte membri di Kataib Hezbollah, hanno preso d’assalto il compound fortificato che sorge al centro della famosa Green Zone di Baghdad, appiccando il fuoco qua e là lanciando sassi verso l’edificio al grido di “Morte all’America”.
Fortunatamente per lui, l’ambasciatore Matthew Tueller si trovava all’estero. Ma non lo stesso può dirsi per le decine di diplomatici e addetti che sono rimasti intrappolati dentro l’edificio paventando il peggio.
Già preoccupante di per sé, l’avvenimento ha assunto i lineamenti di una potenziale tragedia quando è diventato chiaro che la polizia irachena è rimasta letteralmente con le mani in mano. Secondo il Times, al contrario, elementi delle forze di sicurezza di Baghdad avrebbero preso parte all’assalto senza nemmeno curarsi di svestire l’uniforme.
Miliziani pro-Tehran e soldati regolari, d’altro canto, si sono trovati uniti in quel momento all’ombra della più grande ambasciata americana del mondo nel formulare agli Usa una richiesta perentoria: riportare seduta stante a casa i propri uomini in divisa.
È, per inciso, la stessa ingiunzione che parte da quelle sezioni della classe politica irachena che subiscono l’influenza del vicino Iran, o sono una diretta espressione della sua penetrazione nel paese confinante, e hanno quindi un atteggiamento tutt’altro che benigno nei riguardi della perdurante presenza in Iraq dell’esercito americano.
Che la pretesa degli assalitori fosse esattamente questa è stato chiarito dall’anonimo autore di una delle tante scritte murali realizzate durante l’assedio. “È passato da qui”, si legge ora sui muri dell’ambasciata accanto al soprannome di un generale iraniano che rappresenta, nell’epica iraniana, la nemesi degli Usa. Ssi tratta, naturalmente, di Qasem Soleimani, capo della forza Qods dei Guardiani della Rivoluzione e responsabile, in quanto tale, di tutte le operazioni militari esterne della Repubblica Islamica.
Già incandescente martedì, il giorno successivo la situazione presso l’ambasciata ha rischiato di precipitare quando i manifestanti, che hanno trascorso la notte in alcune tende piantate nei pressi del compound, hanno cercato di varcare le mura dell’edificio mentre altri tentavano di salire sul tetto dell’atrio.
Già stanchi di essere presi di mira da pietre e sassi, i marines presenti sul posto hanno allora lanciato cariche di gas lacrimogeno, supportati dai rinforzi che il Pentagono aveva urgentemente trasferito presso l’ambasciata nelle ore precedenti.
Anziché degenerare, tuttavia, la situazione a quel punto ha preso a normalizzarsi, grazie anche alle dichiarazioni del leader della protesta che hanno chiesto ai manifestanti di fare ritorno nelle proprie abitazioni – subordinando però tale decisione all’impegno da parte del primo ministro Adel Abdul Mahdi di introdurre disposizioni di legge che aprano le porte al ritiro completo delle truppe Usa.
“Il vostro messaggio è stato ricevuto”, si legge nell’appello indirizzato ai manifestanti dalle Forze di Mobilitazione Popolare, il gruppo che ricomprende tutte le milizie nate cinque anni fa – con la benedizione, e non solo quella, della Repubblica Islamica – col proposito di dar man forte all’esercito regolare nella guerra contro lo Stato Islamico.
Mentre tutto questo si verificava a Baghdad, sull’asse Teheran-Washington partivano una serie di bordate incrociate. Il via l’ha dato la Guida Suprema Ali Khamenei che, rispondendo all’accusa che ci fosse lo zampino del suo Paese nei fatti delle ore precedenti, ha dichiarato ai media iraniani che “se la Repubblica Islamica prende la decisione di misurarsi con un Paese, lo farebbe in modo diretto”.
Dall’altra parte del mondo, chi cura il profilo Twitter di Donald Trump provvedeva a digitare il più duro degli avvertimenti:
….Iran will be held fully responsible for lives lost, or damage incurred, at any of our facilities. They will pay a very BIG PRICE! This is not a Warning, it is a Threat. Happy New Year!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) December 31, 2019
The Anti-Benghazi!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) December 31, 2019
Non c’è voluto molto tempo tuttavia perché la “minaccia” esplicita di The Donald incontrasse la più beffarda delle repliche, indirizzatagli anche in questo caso dal successore dell’Imam Khomeini: “Non potete fare nulla”.
Questi fatti non avranno magari guastato il capodanno di un leader dallo stomaco di ferro come Donald Trump, peraltro in tutt’altre faccende affaccendato (è appena iniziato l’anno elettorale, e il treno dell’impeachment viaggia verso la stazione finale).
Ma quello giunto da Baghdad è un segnale che non può essere ignorato. Dimostra, una volta di più, che la sfida tra gli Usa e l’Iran resterà in primo piano per lungo tempo, malgrado l’asserita volontà di Washington di occuparsi d’altro (leggi: Russia e Cina), e che altri colpi di scena sono sicuramente all’orizzonte di qui all’Election Day, verso il quale gli ayatollah nutrono la niente affatto recondita speranza di una debacle trumpiana.
Peccato che gli americani, che come si sa tendono a votare col portafoglio, ci penseranno due volte prima di licenziare un presidente che ha portato l’economia Usa a vette storiche. E che i bellicosi propositi della dirigenza iraniana devono fare i conti con quelle sanzioni Usa che, 0ltre a mettere in ginocchio l’economia, hanno innescato una pericolosa scia di proteste interne.
La certezza, insomma, è che il braccio di ferro tra Usa e Iran ci accompagnerà anche durante questo 2020, sebbene l’esito sia tutt’altro che predestinato.