Politologi e analisti di geopolitica in Cina analizzano la contesa elettorale Usa fra Trump e Biden sulle colonne del South China Morning Post
Non c’è posto dove si osserveranno più attentamente le elezioni presidenziali di Pechino.
La Cina sta seguendo con ovvia frenesia la competizione tra Trump e Biden per capire se all’orizzonte l’attendono altri quattro anni di scontro aperto da parte di un Trump rieletto o un approccio diverso da parte di un Biden vittorioso.
Il dibattito in questo senso in Cina è frenetico e ricco di contributi come quello di Shi Jiangtao, il cui articolo di ieri ha inaugurato addirittura una serie del South China Morning Post sul tema arricchita dal parere di numerosi sinologi ed esperti di Cina di varie provenienze.
L’articolo di Shi comincia sottolineando che il clima imperante in Cina corrisponde con la speranza che le elezioni portino ad un reset delle relazioni indipendentemente da chi vincerà la sfida il 3 novembre.
Questa almeno è l’opinione di Pang Zhongying, esperto di affari internazionale alla Ocean University of China, per il quale l’elezione “apre una finestra di opportunità per entrambe le parti di rinunciare allo scontro tipo guerra fredda”.
Nel circolo degli esperti di Cina circola tuttavia anche non poco realismo. Esemplare ad esempio quello di George Magnus, docente al China Centre dell’Università di Oxford, per il quale Pechino non si aspetta nulla in termini di sostanza da questa elezione, solo eventuali e impercettibili cambiamenti nella forma e nello stile del rapporto tra le due superpotenze. Pechino, in altre parole, “è rassegnata per il periodo immediatamente a venire ad un rapporto aspro” con gli Usa.
Il parere di Magnus è condiviso in parte anche da Robert Sutter, docente di affari internazionali alla George Washington University, che ha assistito ad un netto cambiamento di retorica anche nei discorsi di Biden quando, a marzo, ha preso a circolare la teoria che il Covid-19 fosse scaturito da un laboratorio di Wuhan. In quella circostanza, il martellamento nei confronti di Pechino è arrivato in egual misura da entrambi i candidati
Eppure sono in molti, tra i sinologi, a sperare sinceramente che un Biden presidente possa prevalere alle urne e poi sotterrare l’ascia di guerra. Si ricordano costoro che l’ex vicepresidente fu uno dei primi parlamentari a mettere piede in Cina dopo la storica visita di Nixon, che incontrò Deng Xiaoping nel 1979, e che Xi Jinping una volta lo descrisse come “il mio vecchio amico”.
Quanto a Biden, la sua disponibilità nei confronti dell’ex impero di mezzo e i suoi leader è apertamente rivendicata, come fece durante un evento al Council on Foreign Relations nel 2018 in cui disse di aver “speso più tempo in incontri privati con Xi Jinping di qualsiasi altro leader mondiale” (secondo il calcolo del candidato, si tratterebbero di 25 ore di cene private).
È per questo che in Cina le frange moderate e internazionaliste spererebbero in una sua vittoria, che riporterebbe normalità, moderazione e anche intensità ad una relazione per ora abbondantemente danneggiata.
Per Robert Daly, direttore del Wilson Centre’s Kissinger Institute, Biden si asterrebbe anzitutto da ogni forma di retorica abrasiva, tornerebbe a impegnare l’America nei fori internazionali, e soprattutto cercherebbe la cooperazione di Pechino sulla base di calcoli strategici e non di meri impulsi del momento.
“Tutti questi fattori”, conclude Daly, “porterebbero un certo livello di stabilità” ad una relazione che per il momento definire ballerina è poco.
Si distingue leggermente da quella di Daly l’opinione di Gal Luft, condirettore dell’Institute for the Analysis of Global Security di Washington. A suo dire, nessun candidato sarà in grado di assorbire anni e anni di ostilità e percezione negativa della Cina in America.
Tuttavia, aggiunge Luft, “se la scelta è tra la distensione e la pace, Biden più probabilmente offrirà la prima”.
Per Luft una vittoria di Biden rappresenterebbe “l’opportunità per le due parti di voltare pagina, rivitalizzare il loro franco dialogo strategico e (smetterla) con la psicosi cinese che abbiamo sofferto sotto Trump”,
A chi pensa che Biden sarà soft on China risponde Orville Schell, direttore dell’Asia Society Centre di New York, per il quale i collaboratori del candidato sono noti per essere un gruppo di persone “dure e intelligenti che pensano che le attuali ambizioni di Pechino…. siano eccessive, illegali, pericolose e inaccettabili”.
Detto questo, Schell è anche convinto che il team Biden si adopererà per trovare nuove “cornici di collaborazione” e, soprattutto, che “questi uomini e queste donne saranno assai più bravi nel negoziare” rispetto ai membri del Team Trump.
Magnus del China Centre sembra invece nutrire qualche scetticismo circa possibili cambiamenti prossimi venturi. “La natura sistemica della relazione avversaria (tra Usa e Cina) significa che qualsiasi persona potrà gestire le cose in modo differente ma certamente non alterare la traiettoria”.
Magnus definisce “wishful thinking” quello di chi pensa che una vittoria di Biden possa cambiare magicamente le cose e inaugurare una stagione d’oro per le relazioni Washington-Pechino. “Io spero che accada”, è la sua conclusione, “ma dovremmo prepararci per una migliore ma non necessariamente ripristinata relazione”.