Le ultime notizie dalla Libia con l’attivismo di Haftar contro Serraj. Fatti e schieramenti in campo con le posizioni degli Stati. L’articolo di Marco Orioles
Sono state davvero le forze di Haftar a scagliare nella notte tra mercoledì e giovedì una pioggia di razzi grad sul centro di Tripoli che, oltre a fare tre vittime, hanno sfiorato le ambasciate di Italia e Turchia in quello che tutti hanno subito inquadrato come l’ennesimo atto di intimidazione dell’uomo forte della Cirenaica?
Il punto interrogativo è d’obbligo, vista la smentita partita nel tardo pomeriggio di ieri dal comando generale dell’Esercito Nazionale Libico (Lna), che attribuisce quei missili all’opera “delle bande terroristiche e criminali che compiono crimini e azioni contro le ambasciate straniere e le istituzioni internazionali per condizionare l’opinione pubblica internazionale contro le forze armate e gli obiettivi della guerra che conduciamo contro i takrifi e le bande criminali. Il prendere di mira ieri le ambasciare straniere – conclude la nota Lna – rientra in questo quadro”.
Che si tratti di verità, menzogna o depistaggio, sta di fatto che tutti i media internazionali hanno battuto la notizia dei missili atterrati in vari punti del centro città e particolarmente nella zona di Zawiyat al-Dahmani, a pochi passi dunque dalle sedi diplomatiche italiana e turca, del Ministero degli Esteri libico (da tempo inagibile), e della Corte suprema, che secondo una fonte locale avrebbe riportato dei danni.
Nel mirino dei lanciatori sarebbe inoltre finito secondo Reuters anche il porto, colpito proprio mentre le Nazioni Unite stavano conducendo una complicata operazione di sbarco di migranti recuperati in mare che gli uomini del Palazzo di Vetro sono stati costretti a sospendere.
Il bilancio, secondo il consulente per i media del ministero della Sanità libico, Amin al-Hachimi, sarebbe di tre morti e quattro feriti, compresi due agenti della sicurezza appartenenti al ministero degli Interni rimasti uccisi, un altro ufficiale di sicurezza ferito e un volontario della Mezzaluna rossa libica in gravi condizioni.
Ieri si sono succedute le condanne di quello che tutti hanno prontamente letto come l’ennesimo atto proditorio delle forze di Haftar.
Il suo rivale, il capo del Governo di Accordo Nazionale libico Fayez al Sarraj, ha diffuso una nota che definiva “criminale e ostile” l’atto dio poche ore prima e “vili” i ripetuti bombardamenti ai quartieri residenziali, attribuendoli alla disperazione di un nemico che ha patito “ripetute sconfitte” dalle sue milizie .
Immediatamente dopo, il premier ha alzato la cornetta per chiamare il nostro ambasciatore Giuseppe Buccino Grimaldi e il suo collega turco Serhat Aksen e sincerarsi del loro stato di salute.
E non si è fatta attendere la condanna dell’Italia, formulata da un ministro degli Esteri Luigi Di Maio che ha accantonato ogni prudenza diplomatica per scagliarsi contro le “forze haftariane”, ree di attacchi “contro i civili” oltre che di un blitz “che ha colpito anche un’area intorno alla residenza del nostro ambasciatore”.
Al quotidiano La Repubblica, fonti della Farnesina confermavano che l’ira del ministro era fermamente appuntata su Haftar e il suo LNA per un attacco che non può che rappresentare, secondo il nostro dicastero, “un messaggio abbastanza chiaro a noi e alla Turchia”.
Non è un caso se in giornata sia arrivato il sostegno dell’Ue all’Italia. Lo ha formulato Peter Stano, portavoce dell’Alto rappresentante per la Politica Estera della Ue, Josep Borrell, che oltre a definire “inaccettabili (…) i bombardamenti e gli attacchi contro i civili in Libia”, ha espresso “solidarietà ai partner italiani”.
Nella ridda di parole scaturite dopo questi fatti, si segnalano le dichiarazioni della vice-ministra Marina Sereni che nei bombardamenti attribuiti ad Haftar ha intravisto “un atto d’arroganza ma anche di debolezza” da parte di forze che sono chiaramente “in difficoltà”.
In effetti, l’offensiva che il maresciallo e il suo LNA hanno lanciato nell’ormai lontano aprile dell’anno scorso per espugnare Tripoli e che è proceduta a corrente alternata in tutti questi mesi sta andando incontro in questa fase a tutti i suoi limiti.
L’assalto è da tempo bloccato alle porte della capitale, dove gli uomini di Haftar stanno sperimentando sulla propria pelle il peso specifico degli aiuti militari che la Turchia ha fornito in questi mesi ai tripolini per compensare la generosa assistenza che il Maresciallo riceve da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Russia.
Come ha notato pochi giorni fa Deutsche Welle, stanno maturando proprio in queste settimane i frutti dell’accordo stretto l’autunno scorso da Sarraj e dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Intesa nata formalmente per spartirsi le zone di influenze marittime nel Mediterraneo Orientale, ma pensata in realtà con il non secondario proposito di concertare la controffensiva ad Haftar e concordare i termini del sostegno turco alle milizie pro-Tripoli.
Sostegno che, ha fatto notare DW, sta dimostrando proprio in questi giorni tutta la propria efficacia grazie ai sistemi di difesa aerea posizionati da Ankara che consentono di prendere di mira sistematicamente le posizioni nemiche con i droni, rendendo difficile agli uomini del LNA spostarsi in libertà oltre che garantire i rifornimenti alle linee del fronte.
Ed è evidentemente per lo stesso motivo che le cronache dal fronte parlano di un imminente rovesciamento della situazione, con le unità del GNA che, oltre ad aver ristabilito il controllo sulla fascia costiera che dal confine tunisino conduce a Tripoli, sono ormai passate all’attacco con svariate incursioni sulle postazioni nemiche, inclusi i caposaldi di al-Watiyta, ove è da tempo ubicato il quartier generale avanzato di Haftar, e di Tarhuna.
Ieri ad esempio il quotidiano La Stampa segnalava che numerosi raid aerei condotti negli ultimi giorni dalle forze del GNA contro la base di Watiya hanno causato la distruzione di sette veicoli militari e l’uccisione di 15 miliziani, mentre nelle stesse ore al Jazeera riferiva di sei combattenti leali ad Haftar in servizio nella base che si sarebbero arresi.
Il problema che questi sviluppi segnalano è lo stesso paventato da un anonimo funzionario italiano che segue le vicende libiche, ossia che “potremmo essere vicini ad una nuova escalation militare”.
“Ci sono troppe armi in arrivo – ha dichiarato a Repubblica il funzionario – altri aerei, le battaglie fra due campi sostenuti da Turchia da una parte, Emirati, Egitto e Russia dall’altra non sono terminate”.
Per Tarek Megerisi, ricercatore dell’European Council on Foreign Relations, il rischio concreto è l’intervento diretto dell’aviazione degli Emirati con i propri F-16, che si configurerebbe come “una massiccia escalation che la Turchia non potrebbe lasciare senza risposta”.
Ma che in Libia i semi di un imminente spargimento di sangue ci siano tutti l’ha dimostrato anche il rapporto redatto da alcuni osservatori della commissione sanzioni Onu che hanno squarciato il velo sul mistero più trasparente degli ultimi tempi: la presenza sul campo dei mercenari russi del famoso Wagner Group.
Nel rapporto ancora secretato ma di cui sono state diffuse alcune anticipazioni alla stampa, si stima che in Libia siano presenti dal lontano ottobre 2018 tra 800 e mille contractor di Mosca reclutati, oltre che nella madrepatria, anche in Bielorussia, Moldavia, Serbia e Ucraina.
Il compito loro attribuito sarebbe di “fornire supporto tecnico per la riparazione di veicoli militari” , oltre che di “partecipare alle operazioni di combattimento”. Alcuni uomini della Wagner sarebbero inoltre attivi come team di cecchini, altri come unità di artiglieria, mentre di altri sarebbe messo a frutto lo specifico expertise nelle contromisure elettroniche.
Ma il medesimo rapporto Onu certifica anche un altro sviluppo inquietante del conflitto di cui si è parlato a lungo negli ultimi mesi: il reclutamento condotto da Mosca di militari dell’esercito regolare di Damasco e di combattenti di altre nazionalità che hanno combattuto nelle schiere di Assad in quell’altro carnaio che si chiama Siria.
Si tratta di uno sviluppo che preoccupa in particolare gli americani, che a loro volto avrebbero verificato – scrive ancora Repubblica – “che fra i miliziani che partono per la Libia ci sarebbero anche combattenti filo-iraniani, addestrati in Siria da Hezbollah libanese o direttamente dagli iraniani”.