Lo smartphone di Jeff Bezos (Amazon) al centro di un caso spionistico che coinvolge e lambisce anche protagonisti e aziende di Arabia Saudita e Israele. L’articolo di Marco Orioles
Quando parliamo di intrighi internazionali, è possibile constatare come, in certi casi, la realtà superi anche la più fervida immaginazione letteraria.
È un precetto che si può senz’altro applicare al caso del giorno, che oltre a coinvolgere contemporaneamente uno degli uomini più ricchi del mondo e uno dei potenti della terra, il n. 1 di Amazon Jeff Bezos e il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman (meglio noto con l’acronimo MBS), mette nello stesso brodo un omicidio da paura, quello del columnist del Washington Post Jamal Khashoggi trucidato il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul, un micidiale ritrovato della tecnologia spionistica – uno spyware – inserito all’insaputa della vittima nel suo telefonino, e – giacché non ci si vuole far mancare niente – persino un ricatto a sfondo sessual-geopolitico condotto a mezzo stampa.
La storia è già parzialmente nota all’opinione pubblica, alla quale non sfugge anzitutto che il presunto mandante del delitto Khashoggi sia MBS in persona, e che la vittima fosse un collaboratore del giornale controllato da Bezos, il Washington Post.
I più assidui lettori della stampa internazionale saranno al corrente anche di altri succulenti dettagli, a partire dal nome del giornale Usa, il National Enquirer, finito in possesso, per vie misteriose che secondo le nuove rivelazioni lasciavano intravedere le impronte digitali dell’Arabia Saudita, di foto peccaminose del fondatore di Amazon con la sua amante.
Ebbene, da circa 36 ore un nuovo elemento di prova si è andato ad aggiungere a questa trama da film. A rivelarla per primo è stato il Guardian, che con un articolo immediatamente ripreso dal resto dei media mondiali ha messo a disposizione il classico anello mancante.
Se la domanda da un milione di dollari era, infatti, chi mai avesse fornito all’Enquirer quel materiale compromettente, la risposta è arrivata dalle colonne del quotidiano britannico: il galeotto si chiamerebbe MBS o, meglio, sarebbe il suo tenebroso ex consigliere speciale nonché principe dei troll Saud bin Abdullah al-Qahtani.
Che non solo avrebbe avuto un ruolo determinante nell’omicidio del columnist e dissidente saudita, ma sarebbe colui che si è procurato lo spyware che poi è finito nello smartphone di Bezos saccheggiandone i dati della memoria.
Le rivelazioni, che sgorgano dalle indagini condotte sul telefonino di Bezos da un esperto di cybersecurity della FTI Consulting, Anthony Ferrante, che sono state anche recepite, ed evidentemente confermate, dagli inquirenti del Palazzo di Vetro, pongono l’inizio di questo giallo nell’aprile del 2018.
È il momento in cui MBS si trovava in territorio Usa, sguazzando tra le stelle di Hollywood, i marmi della Casa Bianca e le teste d’uovo del MIT.
È quando il potente principe si trova a Los Angeles che, secondo Ferrante, scatta la trappola per Bezos. Qui infatti, durante una cena, MBS ha l’opportunità di conoscere il patron del colosso dell’e-commerce e di ottenerne il numero di cellulare.
Di quella sequenza di numeri, MBS avrebbe approfittato la sera stessa, avviando una conversazione Whatsapp con il titolare dell’utenza. Niente di male fin qui, se non fosse che, un mese dopo, in quella chat sbuca un messaggio con un allegato video.
Il rapporto di FTI non chiarisce se il destinatario abbia ceduto alla curiosità e scaricato il filmato. Sta di fatto che, poche ore dopo, lo smartphone di Bezos inizia a trasmettere all’esterno, ovviamente all’insaputa del proprietario, un quantitativo inusitato di dati.
Secondo Motherboard, che ha visionato il rapporto, l’anomalo traffico di dati in uscita dal cellulare di Bezos sarebbe quantificabile in un mostruoso 29.156% in più.
Ebbene, secondo Agnes Callamard e David Kaye, titolari per conto delle Nazioni Unite delle indagini sul delitto Khashoggi cui è stato consegnato il rapporto FTI, il comportamento dello smartphone di Bezos è tutto fuorché un mistero.
“Il signor Bezos”, scrivono infatti Callamard e Kaye nelle dichiarazioni rilasciate ieri alla stampa, “è stato vittima di una sorveglianza intrusiva (a distanza posta in essere tramite) l’hackeraggio del suo telefono”. Un attacco bello e buono, insomma, la cui origine è da rinvenirsi nelle “azioni attribuibili all’account Whatsapp usato dal principe ereditario Mohammed bin Salman”.
Sebbene non siano in grado di pronunciarsi sullo specifico tipo di malware usato dai sauditi, i due esperti Onu avanzano un sospetto: “La spiegazione più probabile del flusso anomalo di dati” in uscita dal telefonino di Bezos è “l’uso di uno spyware come Pegasus”, prodotto dalla NSO, oppure quello del tutto simile realizzato “dall’Hacking Team di Galileo”.
Israeli cyberattack firm NSO may have helped Saudis hack Jeff Bezos' phone, UN experts say https://t.co/Hu8k5YvxJ0
— Haaretz.com (@haaretzcom) January 22, 2020
Nonostante la seconda ipotesi sia ritenuta meno probabile della prima, il rapporto FTI non ha potuto fare a meno di ricordare che Qahtani nel 2016 rilevò il 20% delle azioni proprio di Hacking Team, i cui clienti – annota il curatore della relazione – “avevano chiesto all’azienda di sviluppare la capacità di infettare i dispositivi attraverso video mandati via Whatsapp”.
La storia, a questo punto, fa un balzo in avanti di alcuni mesi, quando – l’8 novembre dello stesso anno, dunque poco più di un mese dopo la morte di Khashoggi – un nuovo messaggio Whatsapp partito dall’account di MBS raggiunge quello di Bezos. Si tratterebbe di un meme con un testo a dir poco balzano – lo si riporta per intero e in lingua originale: “Arguing with a woman is like reading the Software License agreement—in the end you have to ignore everything and click I agree.”
A insospettire Bezos, tuttavia, non saranno quelle parole che appaiono poco più di uno scherzo, ma la donna ritratta nel meme, che rassomiglia molto da vicino a Laura Sanchez, la donna con cui Bezos aveva una relazione clandestina fino a quel momento sconosciuta al mondo (e alla moglie del magnate).
Ci penserà il National Enquirer, poco tempo più tardi, a svelare all’opinione pubblica lo scoop di quella clamorosa relazione extraconiugale, pubblicando dei messaggi intimi evidentemente trafugati dal cellulare di Bezos.
Lo scandalo, allora, fu grande – visto anche il ricatto fatto dall’Enquirer alla vittima – proprio come lo stupore, e la rabbia, di Bezos. Che tuttavia non volle mai credere alla versione fornita dalla American Media Inc. (AMI), proprietaria dell’Enquirer, secondo cui quel materiale le sarebbe stato messo a disposizione dal fratello della sua amante.
Bezos, al contrario, commissionò a un consulente di sicurezza informatica, Gavin de Becker, un’indagine per scoprire chi ci fosse davvero dietro quel colpo di mano. Dovettero passare alcuni mesi prima che, nel marzo 2018, The Daily Beast desse spazio allo stesso de Becker e alle conclusioni del suo lavoro, che puntavano il dito proprio sul governo saudita.
Le rivelazioni di ieri, a questo punto, suffragano ulteriormente il più atroce dei sospetti, ossia che il duo MBS-Qahtani abbia deciso di ricattare in quel modo Bezos, vale a dire il proprietario del giornale per cui lavorava Khashoggi e che, immediatamente dopo il delitto, avviò una virulenta e ancora non finita campagna anti-saudita che a Riad, evidentemente, procurava più di qualche mal di pancia.
Ieri, naturalmente, è arrivata via Twitter la secca smentita da parte del Regno. Ma nelle stesse ore, sui social dei 280 caratteri, circolava anche il cinguettio del patron di Amazon, contenente un semplice hashtag con il nome del suo scomparso collaboratore saudita e, incorporata, la foto di Bezos in bella vista a fianco della bara del giornalista.
Recent media reports that suggest the Kingdom is behind a hacking of Mr. Jeff Bezos' phone are absurd. We call for an investigation on these claims so that we can have all the facts out.
— Saudi Embassy (@SaudiEmbassyUSA) January 22, 2020
#Jamal pic.twitter.com/8ej1rUBXVb
— Jeff Bezos (@JeffBezos) January 22, 2020
La guerra Amazon-Arabia Saudita continua.