In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, l’annuncio ufficiale del lancio dell’Ipo di Aramco, la più grande compagnia petrolifera al mondo di proprietà del Regno Saudita. La sezione “notizie dal mondo” è tutta dedicata alle ultime mosse della Cina.
PRIMO PIANO
La notizia economica più importante di ieri è riassunta in questo tweet partito in mattinata dal profilo Twitter di Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo integralmente posseduta dallo Stato saudita che, come possiamo leggere nel cinguettio, ha deciso di procedere con la tanto attesa Ipo e la quotazione in Borsa:
Saudi #Aramco confirms its intention to list on @Tadawul, the Saudi National Stock Exchangehttps://t.co/hqvy7wbdJz pic.twitter.com/crpD7amnzR
— Aramco (@Aramco) November 3, 2019
L’annuncio, che era nell’aria da settimane, è arrivato tramite una dichiarazione del board dell’autorità di mercato del Regno, che ha fatto sapere di aver approvato la richiesta della compagnia di mettere in vendita “parte delle proprie azioni”.
Come ha dichiarato ieri il ceo di Aramco, Amin Nasser, il prospetto dell’Ipo sarà reso noto il prossimo 9 novembre. Da quel momento in poi comincerà il balletto che porterà a fissare una quotazione per l’azienda e le sue azioni, che arriveranno solo dopo una complessa trattativa tra Stato, azienda, banche coinvolte e investitori.
Ciò che si sa per ora è che l’operazione si snoderà in due fasi distinte. In un primo momento, l’Ipo avrà luogo esclusivamente nella locale borsa di Tadawul e sarà divisa in due tranche: una riservata agli investitori istituzionali sauditi e l’altra ai privati cittadini del Regno, i quali si spartiranno complessivamente una quota compresa tra l’1 e il 2% delle azioni.
Ragionando su una quotazione dell’azienda che nelle valutazioni più generose potrebbe toccare i due trilioni di dollari, Riad punta a raccogliere così dai 20 ai 40 miliardi di dollari. Salvo sorprese, siamo dunque in procinto di assistere all’Ipo più ricca della storia, capace di mettere in ombra il record raggiunto a suo tempo da Alibaba con i suoi 25 miliardi.
Secondo le fonti di Al-Arabyia, il passaggio cruciale arriverà il 17 novembre, quando sarà reso noto il prezzo di partenza dello stock; dopo vari ritocchi all’insù o all’ingiù, il prezzo sarà fissato definitivamente il 4 dicembre e quindi, esattamente sette giorni dopo, le azioni saranno finalmente scambiate alla borsa di Tawdul.
Questa, come dicevamo, è solo la prima parte di un’offensiva che comprende una successiva quotazione di un altro stock presso le borse estere pari probabilmente ad un ulteriore 3%. E qui un ruolo chiave lo giocheranno la ventina di banche che stanno lavorando sull’affare e che comprendono calibri come Morgan Stanley, Citigroup Inc., Goldman Sachs Group Inc., e JPMorgan Chase & Co.
A loro il compito di coronare il sogno dell’architetto di questa operazione, il principe Mohammad bin Salman (MBS), che punta a ricavare complessivamente almeno 100 miliardi di dollari: cifra necessaria per finanziare parte del suo ambizioso progetto, denominato “Vision 2030”, con cui punta a diversificare l’economia del regno rendendola meno dipendente dalla monocultura petrolifera.
Non sono poche, tuttavia, le variabili in gioco che potrebbero, se non guastare la festa dell’erede al trono, per lo meno stemperarne l’entusiasmo. La principale incognita riguarda proprio la quotazione di Aramco e il divario tra i desiderata di MBS, che punta alla cifra monstre di 2 trilioni di dollari, e le stime fatte da organismi indipendenti che abbassano quella soglia di parecchie centinaia di miliardi (la forchetta ieri, nella stampa specializzata, oscilllava tra gli 1,8 trilioni di dollari e 1,2 trilioni).
Anche un risultato non conforme alle aspettative del Regno nulla toglierebbe comunque alla portata del fatto. Stiamo parlando infatti dell’ingresso, nel mondo del trade azionario, di un colosso energetico senza pari, che siede su riserve pari a 260 miliardi di barili di petrolio – assai più di quelle combinate di Exxon Mobil Corp, Chevron Corp, Royal Dutch Shell Plc, BP Plc e Total SA – che assicureranno utili almeno per il prossimo mezzo secolo.
Quanto ai volumi di produzione, l’anno scorso Aramco ha sfornato una media di 10,3 milioni di barili di petrolio al giorno, cui va aggiunta una preziosa capacità di produzione extra che può spingere il totale dell’output fino a 12 milioni di barili. Nel computo vanno poi inseriti anche gli 8,9 miliardi di metri cubi di gas naturale estratti ogni giorno.
Accanto a questi numeri da capogiro va accostato poi un altro dato che spiega bene come Aramco sia la macchina da soldi per antonomasia. I costi di estrazione del petrolio saudita sono tra i più bassi al mondo, appena 2,80 dollari al barile, che se messi a confronto con il prezzo finale sul mercato del greggio che è pari a 62 dollari al barile bene illustrano i profitti che Aramco è in grado di generare.
Per farsi un’idea precisa del flusso di denaro che finisce nelle casse di Aramco, basterà ricordare l’utile netto di 111 miliardi di dollari registrato l’anno scorso, che è pari ad oltre un terzo in più del reddito netto combinato delle cinque più grandi compagnie rivali (Exxon Mobil, Royal Dutch/Shell, BP, Chevron e Total).
E se il recente calo del prezzo del petrolio ha ridotto nei primi mesi di quest’anno l’utile netto di Aramco del 12%, portandolo a 46,9 miliardi di dollari, siamo pur sempre di fronte ad una somma considerevolmente superiore a quella raccolta dalla società quotata più redditizia al mondo, Apple (31,5 miliardi di dollari).
Sulla carta, insomma, l’IPO di Aramco ha tutti i numeri per entrare nella storia. E nulla è stato lasciato al caso. Nel Regno già suona la grancassa dell’investimento patriottico, con la quale si punta a convincere tanto i nababbi quanto i comuni cittadini a fare il proprio dovere.
Le banche del paese hanno ricevuto istruzioni di essere di manica larga con i clienti che ricorreranno al credito per accaparrarsi le azioni di Aramco, che potranno essere acquistate eccezionalmente anche dalle “donne saudite divorziate”. Per ogni dieci azioni acquistate entro i primi 180 giorni dell’Ipo, inoltre, i sudditi ne riceveranno una extra.
Un ulteriore passo che Aramco sta valutando per assicurarsi il pieno successo dell’operazione è di aumentare di ulteriori 5 miliardi di dollari i dividendi distribuiti agli investitori, che toccherebbero così l’ingente somma di 80 miliardi di dollari.
A tal proposito, Bloomberg rileva che se la quotazione dell’azienda sarà fissata a 1,8 trilioni di dollari, l’utile per gli investitori sarà pari al 4,4%: una cifra di tutto interesse nell’era dei tassi piatti, anche se di poco inferiore al 5% garantito da Exxon. Il fatto è che chi investirà in azioni Aramco vedrà quel tasso garantito sino al 2024 a prescindere dalle oscillazioni del prezzo del petrolio.
La nostra analisi non sarebbe completa se non citassimo l’altro versante della medaglia. Dopo i fattori che rendono oggettivamente quello di Aramco l’affare del secolo, vanno citati quelli che potrebbero depotenziarlo.
E la prima e più importante variabile nell’elenco è rappresentata dalle incertezze geopolitiche in cui è immerso fino al collo un Regno impegnato in uno scontro frontale con il suo rivale regionale, l’Iran. Non può essere sottaciuto, a tal proposito, l’impatto generato dall’attacco che il 14 settembre scorso la Repubblica Islamica, con i suoi alleati yemeniti Houthi, ha messo a segno contro la principale raffineria e i pozzi petroliferi sauditi, causando il temporaneo dimezzamento della produzione.
La seconda insidia non è da meno e ha le fattezze di un’adolescente europea che sta mobilitando i giovani di tutto il mondo, e politici al seguito, a favore di azioni decisive a salvaguardia del clima. Agli occhi di questo movimento, un’azienda che produce petrolio – e inquinamento – non può che rappresentare il demonio.
Ma anche il terzo elemento è destinato ad avere il suo peso, ed è la natura stessa di quel Regno e dei suoi dirigenti che continueranno a controllare Aramco. Stiamo parlando in particolare proprio di MBS, universalmente considerato il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi: non proprio un buon biglietto da visita per un uomo che sta chiedendo al mondo di fidarsi di lui.
Insomma, se la marcia di MBS non è esente da possibili sbandate, è certo che quando, tra pochi giorni, la macchina dell’Ipo avrà intrapreso la sua marcia il mondo non sarà più lo stesso.
TWEET DELLA SETTIMANA
BREAKING: Audio from new official spokesman of #ISIS, “Abu Hamza al-Qurayshi.” Statement confirms Abu Hassan al-Muhajir's death, saying that he was a Saudi. Also confirms death of Baghdadi, announces "Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi" as new leader/"Caliph." pic.twitter.com/3li0H5Fr14
— Rita Katz (@Rita_Katz) October 31, 2019
Con un messaggio audio scandito dal nuovo portavoce del movimento e intercettato da “SITE”, l’organismo fondato da Rita Katz che monitora le comunicazioni del mondo jihadista, lo Stato Islamico ha ufficializzato la morte del califfo Abu Bakr al-Bagdhadi e la nomina del suo successore nella persona di Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraysh.
NOTIZIE DAL MONDO: SPECIALE CINA
Decolla il 5G in Cina
Le tre maggiori telco cinesi – China Mobile, China Unicom e China Telecom – hanno annunciato l’avvio del servizio 5G a partire da venerdì scorso, anche se l’accesso alla rete ultraveloce risultava possibile già 24 ore prima.
I siti web delle tre compagnie, insieme ai loro vari store on line, hanno subito cominciato a reclamizzare piani di abbonamento con costi a partire da 128 yuan al mese, pari a 18,2 dollari. Sono già dieci milioni i clienti che hanno pre-acquistato uno dei pacchetti 5G messi a disposizione.
China Mobile, China Unicom e China Telecom puntano ad installare entro la fine dell’anno più di 50 mila stazioni base 5G sul territorio di cinquanta città cinesi, che si aggiungeranno a quelle più grandi, come Pechino, Shanghai, Guangzhou e Hangzhou, dove la rete è già operativa.
In previsione del decollo, i produttori cinesi di smartphone come Huawei e Xiaomi hanno già messo a punto e iniziato a commercializzare nuovi modelli abilitati per il 5G.
Xiaomi il mese scorso ha annunciato di essere in procinto di lanciare di qui al 2020 dieci modelli di smartphone nuovi di zecca, anticipando anche, con una certa preoccupazione, un crollo delle vendite dei modelli 4G. Huawei, dal canto suo, prevede un significativo balzo in su dei propri profitti quale conseguenza del lancio del servizio 5G e della corsa all’acquisto dei suoi nuovi modelli di smartphone 5G.
Queste notizie rappresentano un ulteriore punto di forza per un’azienda come Huawei che, in barba alla guerra fredda tecnologica in corso con gli Usa, non solo raggiunge un traguardo storico, ma si prepara a raccogliere i benefici dei circa 60 contratti commerciali siglati in giro per il mondo – 28 dei quali nella sola Ue – per realizzare le varie reti 5G.
Pechino nomina uno Zar per i rapporti con l’Ue
Si chiama Wu Hongbo, è un diplomatico di carriera e sarà il primo Inviato speciale della Cina nell’Unione Europea, figura che fino ad oggi era prevista solo per l’Africa ed il Medio Oriente.
La nomina di Wu è stata annunciata venerdì durante la consueta conferenza stampa del portavoce del Ministero degli Esteri, Geng Shuang.
“Essendo due forze importanti nel mondo”, ha commentato Geng, “Cina ed Europa hanno dato forma ad una cooperazione multidimensionale, sfaccettata e ad ampio raggio”. Il nuovo inviato avrà dunque il compito di inserirsi in questa dinamica virtuosa con il compito di “rafforzare la comunicazione, il coordinamento e la cooperazione, e approfondire la fiducia reciproca”. In questo modo, ha aggiunto il portavoce, Pechino e Bruxelles potranno perseguire meglio “il comune interesse di mantenere il multilateralismo e il libero commercio e di costruire un’economia mondiale aperta ed inclusiva”.
Le fonti sentite dal South China Morning Post inquadrano diversamente tuttavia la mossa di Pechino. Per un diplomatico europeo, la nomina di un inviato speciale appare come la reazione al cambio drastico di atteggiamento dell’Ue nei confronti del Dragone e, più precisamente, come “la risposta alla scelta dell’Ue” – incastonata in un paper comunitario reso pubblico lo scorso marzo – “di caratterizzare la Cina come un rivale sistemico che promuove modelli di governo alternativi”.
Non deve essere stato estraneo alla decisione di Pechino anche l’imminente cambio ai vertici dell’UE e, quindi, la scelta da parte dei 28 di far guidare la Commissione ad un leader come Ursula von der Leyen che, a detta di un’altra fonte europea consultata dal quotidiano, “appare pronta a mettere in evidenza con la stessa enfasi tanto i punti in comune quanto le divergenze tra Unione Europea e Cina”.
Dopo aver ricoperto vari incarichi in diversi Paesi dell’Europa Occidentale, tra cui quello di ambasciatore a Berlino tra il 2009 e il 2012, Wu è stato nominato nel 2012 sottosegretario generale alle Nazioni Unite per gli affari sociali ed economici.
Prima di queste missioni all’estero, il neo-Inviato aveva sviluppato una lunga esperienza al Ministero degli Esteri, dove ha prestato servizio come segretario dell’Unità per Hong Kong e Macao e come vice commissario a Macao. Nel 1997, anno della restituzione di Hong Kong alla Cina da parte del Regno Unito. Wu faceva parte del Sino-British Joint Liaison Group, organismo istituito congiuntamente dalla ex potenza coloniale e da Pechino per gestire la transizione.
Primo affare per Pechino nelle isole Salomone a un mese dall’avvio delle relazioni diplomatiche
Ammonta a 825 milioni di dollari l’accordo con cui a Guadalcanal, nelle Isole Salomone, alcune aziende cinesi provvederanno a rimettere in funzione una miniera d’oro abbandonata, facendosi carico anche della costruzione di numerose infrastrutture tra cui una centrale elettrica, strade, una ferrovia, un porto e alcuni ponti.
L’intesa era stata accolta inizialmente da un certo timore per il possibile debito di cui avrebbero dovuto farsi carico le Salomone. Ma se agli abitanti di Guadalcanal presente pochi giorni fa alla cerimonia di inizio lavori è stato spiegato che non dovranno sganciare un centesimo, è stato parimenti messo in chiaro che le infrastrutture non saranno di loro proprietà.
I diritti saranno infatti tutti in capo a una società controllata da Wanguo International Mining, compagnia di Hong Kong, che ha già siglato con un’azienda pubblica cinese, la China State Railway Group, il contratto per la realizzazione dei lavori, che includeranno una linea ferroviaria della cui costruzione si farà carico China Rail, che importerà dalla madrepatria i macchinari necessari e una parte della manodopera (che per il 70% sarà però costituita da personale locale).
“Questo”, ha dichiarato l’ambasciatore cinese in Papua Nuova Guinea Xue Bing, “segna non solo un nuovo inizio per la (miniera), ma anche un importante, primo raccolto della cooperazione amichevole tra la Cina e le Isole Salomone che hanno stabilito le relazioni diplomatiche appena 35 giorni fa”.
Al picco delle sue attività, prima che nel 2014 pesanti inondazioni le bloccassero del tutto, la miniera forniva alle piccole Salomone quasi il 30% dell’intero reddito nazionale, che l’anno scorso era pari ad appena 1,4 miliardi di dollari secondo i dati della Banca Mondiale.
Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.
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