Nel giro di una sola settimana, Donald Trump ha compiuto una serie di clamorose giravolte in politica estera. Eravamo convinti che alla Casa Bianca si fosse insediato un presidente iper-nazionalista, che si sarebbe preoccupato dei soli interessi economici del suo Paese snobbando gli impegni globali che caratterizzano di norma l’agenda della superpotenza. Con l’attacco alla base siriana di Shayrat, Trump ha invece indossato repentinamente i panni dello sceriffo che punisce un dittatore per aver violato la legalità internazionale. Al raid è seguita un’offensiva diplomatica volta a ottenere ciò che fino a pochi giorni prima gli Stati Uniti negavano di voler perseguire: l’uscita di scena del presidente siriano Assad. Un obiettivo su cui gli Usa hanno ottenuto il pieno sostegno degli alleati occidentali, che hanno accolto con soddisfazione la svolta interventista della Casa Bianca, considerata preludio ad una soluzione politica della guerra che piaga da oltre sei anni la Siria. Con lo strike di Shayrat, gli Usa hanno inoltre lanciato un potente messaggio alla Corea del Nord, altro fronte caldo in cui l’America è impantanata da oltre sessant’anni. Di fronte alla sequenza di provocazioni missilistiche da parte di Pyongyang, e all’imminenza di un nuovo test nucleare, Trump ha deciso di cambiare registro. Ha inviato verso la penisola coreana un’unità navale d’assalto guidata da una portaerei nucleare, in un evidente tentativo di riportare Kim “l’atomico” a più miti consigli. Come per la Siria, la mossa americana è stata accompagnata da iniziative diplomatiche, rivolte in questo caso al principale alleato del regno eremita, la Cina. Pechino rappresenta la linea vitale del regime di Pyongyang, che dagli scambi commerciali con il Dragone ottiene quel quantitativo di valuta estera necessario per rimanere in piedi. Un pressing cinese sull’alleato nordcoreano rappresenta perciò la migliore via d’uscita alla crisi, e un’alternativa più razionale rispetto ad un’escalation militare il cui prezzo sarebbe pagato dall’intera regione. Per essere ancor più persuasivi, gli Stati Uniti hanno sfoderato, stavolta nel teatro afghano, la più poderosa arma convenzionale in dotazione al proprio esercito: la “madre di tutte le bombe” MOAB. Un segnale eloquente di cosa gli Usa siano capaci qualora i regimi di Corea del Nord e Siria si ostinassero a mantenere comportamenti irresponsabili. Questa sequenza di mosse da parte americana evidenzia il nuovo equilibrio instauratosi in seno al team Trump. Non è passata inosservata la marginalizzazione del consigliere senior e ideologo del tycoon, Steve Bannon, principale artefice del corso populista e isolazionista imboccato dall’America del primo Trump. Ad avvantaggiarsene sarebbe stata l’ala internazionalista incarnata dal consigliere e genero di The Donald, Jared Kushner, e dalla moglie di quest’ultimo nonché “prima figlia” d’America Ivanka Trump. Sarebbero stati loro a propiziare il nuovo atteggiamento della Casa Bianca, con conseguenze potenzialmente enormi sulle scelte presenti e future degli Stati Uniti. Resta da vedere se la svolta americana porterà a risultati tangibili – pace in Siria e denuclearizzazione della Corea in primis – o se si rivelerà un mero ruggito.
@marcoorioles