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All’Onu va in scena la frattura fra Europa e Stati Uniti sulle proteste in Iran

Pubblicato il 06/01/2018 - Formiche

È sempre più netto il solco tra Stati Uniti ed Europa sulle proteste in Iran, con i primi rimasti soli a sostenere le ragioni dei manifestanti e la seconda che si rifugia in una linea prudente, quando non equidistante tra dimostranti e regime, smarcandosi nettamente dalla posizione di Washington che, dal presidente Donald Trump in giù, ammonisce severamente gli ayatollah e intravede, nelle rivolte di questi giorni, il possibile principio di una crisi fatale per la Repubblica islamica.

La divisione transatlantica è andata in scena di nuovo ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, convocato d’urgenza dall’ambasciatrice statunitense Nikki Haley. Che non solo non porta a casa il sostegno delle altre potenze alla linea antagonista nei confronti del regime, ma incassa l’accusa da parte degli altri diplomatici di strumentalizzare un affare interno all’Iran.

Invitato a prendere parte alla riunione, l’ambasciatore iraniano Gholamali Khoshroo ha approfittato dell’occasione per rampognare gli Stati Uniti, ricordando tutte le occasioni in cui l’America è stata teatro di scontri violenti, dalle proteste alla convenzione nazionale del Partito Democratico del 1968 al movimento Occupy Wall Street che ha occupato la ribalta nel 2011. Il messaggio era chiarissimo: chi siete voi per darci lezioni, e perché mai un organo deputato a gestire la pace e la sicurezza internazionali dovrebbe occuparsi di un problema interno. È curioso ed irritante, per Khoshroo, che si abusi del Consiglio di Sicurezza per “tenere un incontro su un tema che cade al di fuori del suo mandato”. L’ambasciatore è andato quindi all’attacco, ribadendo la spiegazione ufficiale del regime: le proteste “sono state chiaramente dirette da fuori”, e hanno ricevuto un “incoraggiamento diretto da forze straniere, incluso il presidente degli Stati Uniti”.

Sono in molti a fare da sponda alle parole di Khoshroo. A partire dall’ambasciatore russo, Vassily Nebenzia. Che si è chiesto come mai il Consiglio di Sicurezza non si sia riunito a suo tempo per discutere del movimento Black Lives Matter, sceso più volte in piazza negli Stati Uniti per protestare contro le prevaricazioni della polizia. “Gli Stati Uniti stanno abusando della piattaforma del Consiglio di Sicurezza”, ha tuonato Nebenzia. “La vera ragione nel convocare l’incontro di oggi”, ha concluso, “non è il tentativo di proteggere i diritti umani o promuovere gli interessi del popolo iraniano, ma è piuttosto un velato tentativo di usare il momento attuale per continuare a minare” l’accordo sul nucleare, che Trump minaccia di stracciare.

Anche per l’ambasciatore boliviano Llorenty Solíz “la situazione in Iran non pertiene all’agenda del Consiglio di Sicurezza”, mentre l’ambasciatrice svedese ha espresso “perplessità sul formato e i tempi di questa sessione”. Pesante la presa di distanza dell’ambasciatore francese Francois Delattre. Che prima dell’incontro aveva deplorato il tentativo di “strumentalizzazione” dei fatti iraniani. “Dobbiamo evitare”, ha detto in aula, “ogni tentazione di sfruttare questa crisi per fini personali”, anche perché “avrebbe il risultato diametralmente opposto a quello sperato”. Il Consiglio di Sicurezza, ha aggiunto, “deve guardarsi dall’abusare di questa crisi, che non farebbe altro che rinforzare gli estremisti”. Si rifugia nella tradizionale linea di non interferenza con gli affari di altri paesi la Cina. Il cui ambasciatore, Wu Haitao, si è detto convinto che la riunione di ieri “non aiuta a risolvere il problema interno dell’Iran”.

Gli unici a non esprimere aperte riserve nei confronti della posizione degli Stati Uniti sono la Gran Bretagna e l’Olanda. Per l’ambasciatore britannico Matthew Rycroft, è “giusto e appropriato – in effetti, è nostra responsabilità – valutare se una situazione come questa possa diventare una minaccia alla pace internazionale e alla sicurezza”. Il suo collega olandese Karel van Oosterom ha invece espresso l’auspicio che l’incontro possa “servire come una misura preventiva perché si eviti un’ulteriore escalation di violenze”. Mancano del tutto, però, gli accenti pro-manifestanti degli Stati Uniti.

Appare chiaro insomma come gli Stati Uniti siano praticamente da soli a esprimere fermezza nei confronti di Teheran. Per l’ambasciatrice Haley, la riunione di ieri è stata una nuova occasione per ribadire la posizione espressa ripetutamente in questi giorni da Trump, dal suo vice Mike Pence e da buona parte del mondo politico americano, con un afflato bipartisan. “Non deve esserci alcun dubbio”, ha detto Haley, che gli Usa “stanno assolutamente dalla parte di coloro che in Iran lottano per la libertà, la prosperità per le loro famiglie e la dignità per la loro nazione”. Anziché dare prova di opportunismo e fare così il gioco di chi bolla i manifestanti come “burattini di potenze straniere”, ha sottolineato, “Il mondo dovrebbe applaudire il loro coraggio”. Ricalcando il tweet del 2 gennaio del capo della Casa Bianca, l’ambasciatrice ha dunque “avvertito” il “regime iraniano” che “il mondo guarderà a ciò che farai”.

È palese l’irritazione americana per la riluttanza europea ad allinearsi alla sua condanna degli ayatollah. A palesarla è stata, tra gli altri, il segretario di Stato Rex Tillerson. Che in una lunga intervista rilasciata ieri all’Associated Press si è detto “deluso dall’Unione europea perché non ha preso una posizione più netta”. È incomprensibile, per Tillerson, che gli europei, che amano considerarsi campioni della democrazia e dei diritti umani, non esprimano sostegno “verso quelle voci in Iran che chiedono le riforme”.

Spicca, tra le altre cose, l’assenza di una posizione netta dell’Italia. Che, con un tweet della Farnesina del 3 gennaio che ha riferito le parole del ministro Angelino Alfano, si è limitata ad auspicare che “siano garantite pacifiche libertà di manifestazione e espressione nel rispetto della legge, senza alcuna violenza da parte di autorità e dimostranti”.

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