Tutte le ultime novità sui rapporti Italia-Cina e la prossima visita di Xi in Italia con il caso della banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib)
C’è un dettaglio delle trattative in corso tra Roma e Pechino che, pur pensato per stemperare un clima quanto mai arroventato, finisce per aggiungere benzina sul fuoco.
Venerdì il Financial Times ha svelato la bozza del Memorandum d’intesa (Mou) con cui l’Italia aderirà, prima grande economia mondiale a farlo, alla “Belt and Road Initiative” (Bri), le nuove vie della Seta con cui la Cina mira a creare corridoi terrestri e marittimi attraverso i quali unificare, sotto la sua egida, l’intera Eurasia.
Lunga cinque pagine, la bozza si intitola “Documento d’intesa tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica Popolare Cinese sulla collaborazione all’interno del progetto economico ‘Via della Seta’ e dell’iniziativa per le vie marittime del XXI° secolo”.
Un testo che, una volta siglato, impegnerà – si legge – le “controparti” a “lavorare insieme” in questo maxi progetto infrastrutturale che avrà ricadute concrete nel nostro Paese – si parla insistentemente dei porti di Genova e Trieste – regolamentate da ulteriori accordi in via di definizione. Sono una ventina, riferisce al Ft il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano (M5S), i Memorandum su cui apporranno la loro firma i rappresentanti del governo italiano e, per quello cinese, il presidente Xi Jinping, atteso nel Belpaese questa settimana.
Scegliendo di partecipare alla Bri, il governo italiano sa, naturalmente, di compiere un atto divisivo. Lo dimostrano le roboanti polemiche di questi giorni, che hanno ritratto l’Italia alle prese con una spericolata transizione geopolitica che, dal tradizionale alveo euroatlantico, la sta spostando dentro il campo della pax sinica. I moniti giunti da Washington e Bruxelles documentano la drammaticità di questo momento tutto italico, di questo flirt con la seconda potenza economica mondiale che ora, grazie all’accredito romano del suo progetto bandiera, segna un punto a favore della sua ambiziosa strategia volta a rifare il mondo a sua immagine e somiglianza.
Ed è proprio per prevenire le obiezioni dei suoi storici alleati che l’Italia pentaleghista, nell’aderire alla Bri, compie un passo volto, secondo le intenzioni di chi l’ha concepito, a rassicurarli. Come sottolinea il Ft, il MoU in gestazione al Ministero dello Sviluppo Economico prevede che Roma e Pechino, nel progettare le opere delle vie della Seta, lavorino “assieme alla Banca di investimento asiatica per le infrastrutture (AIIB)”.
Per finanziare la parte italiana della Bri, Roma accenderà dunque prestiti con la banca multilaterale per lo sviluppo fondata nel 2016 da Pechino, con sede a Pechino e controllata da Pechino. Una mossa che, per il quotidiano della City, dimostrerebbe gli sforzi fatti dall’Italia per dissipare i timori della Commissione Europea, che punta il dito sull’opacità dei finanziamenti del Dragone e sull’assenza di remore che caratterizza di norma gli appalti cinesi. Il coinvolgimento dell’AIIB servirebbe proprio a fugare questi dubbi, blindando il MoU Roma-Pechino rendendolo conforme alle norme europee e agli standard internazionali.
Un bel passo in avanti, insomma, rispetto alle pratiche tradizionalmente seguite da Pechino. Fino ad oggi infatti, ricorda ancora il Ft, la maggioranza dei prestiti per le infrastrutture delle vie della Seta sono stati gestiti dalla China Development Bank e dalla Export-Import Bank of China, “due istituti di credito bilaterali – scrive il quotidiano finanziario inglese – che concedono prestiti in segretezza quasi sempre legati a contratti di costruzione di società cinesi”.
Dal cilindro di Palazzo Chigi e del Mise, dunque, spunta un asso formidabile. Che un diplomatico europeo di stanza a Bruxelles citato dal Ft definisce “un punto di svolta”. “Senza il coinvolgimento dell’AIIB nel prestito ai progetti – spiega infatti la feluca – sarebbe difficile per la Bri volare in uno stato membro chiave dell’Ue”.
Una mossa geniale, insomma, quella del nostro governo. Che, per usare l’espressione del vicepremier Matteo Salvini, dona le chiavi delle infrastrutture in progetto ad una Banca attiva dal gennaio 2016 cui aderiscono sessantuno Paesi tra cui figurano, oltre a quelli dell’area originariamente beneficiaria dei suoi interventi, l’Asia-Pacifico, anche pesi massimi come Germania, Francia e Regno Unito. E l’Italia.
Certificata con una tripla A da Moody’s, Fitch e S&P, l’AIIB ha apparentemente tutte le carte in regola per rasserenare le Cassandre che denunciano la deriva gialla dell’Italia. Se non fosse per un dettaglio che proprio neutro non è: la governance della Banca. Il voto della Cina pesa infatti per il 27% del totale. Ciò le conferisce di fatto un diritto di veto su tutte le decisioni chiave, dalla nomina del Presidente, alla ripartizione dei proventi all’approvazione di finanziamenti al di fuori del continente asiatico. Con un capitale di 2,57 miliardi di dollari pari al 2,7% del totale, l’Italia occupa un posto di rilievo nella Banca ma, al cospetto di Pechino, appare chiaramente un peso leggero, se non un fuscello.
Il dato finanziario è però poca cosa rispetto a quello politico, decisamente più sostanziale. L’AIIB viene infatti lanciata nell’ottobre 2013 non solo e non tanto per venire incontro al fabbisogno infrastrutturale di un continente affamato di acciaio e cemento come l’Asia, ma per porsi come alternativa alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale, istituzioni notoriamente controllate da Washington. La sua nascita fu interpretata proprio come reazione alla riottosità del Congresso Usa a rivedere le quote della World Bank e del Fmi e conferire quindi maggiore influenza alla Cina. L’AIIB, in altre parole, è un tassello del nuovo ordine mondiale disegnato dalla Cina pro domo sua.
Gli Usa, non a caso, esercitarono non poca pressione sui Paesi europei affinché non saltassero sul nuovo carro finanziario di Pechino. Senza però ottenere risultati. Le maggiori nazioni del Vecchio Continente non si vollero far sfuggire l’occasione di essere parte di un’istituzione nata con il preciso mandato di essere il braccio operativo della Bri e con l’incarico di innaffiare le opere in cantiere con l’abbondante liquidità disponibile nelle casse cinesi.
Presente nella Banca sin dalle sue prime battute, l’Italia fa dunque un ulteriore passo in avanti, diventando, da azionista, beneficiaria delle sue provvidenze. Destinataria, insomma, di finanziamenti a prestito. Con tutte le conseguenze del caso, quelle politiche in primis. Che, a giudicare dall’opinione di un economista di rango come Giulio Sapelli, sono molto pesanti.
“Siamo dinnanzi a una minaccia seria”, tuona a Formiche.net Sapelli, “una minaccia che porta il nome dell’imperialismo del debito. Una nuova forma di colonialismo basata non più sulla conquista di terre ma sul debito”. Lo storico dell’economia che in un’intervista a Start Magazine ha definito “una piccola Vichy” il MoU con cui l’Italia dovrebbe aderire alla Bri invita tutti a guardare a cosa è successo ad un Paese molto vicino all’Italia che prima di noi fu beneficiario di prestiti cinesi: la Grecia. Un Paese che è diventato la vittima più illustre, nel Vecchio Continente, della “trappola del debito” e che, oberato da prestiti che non è stato in grado di onorare, ha dovuto cedere a Pechino le chiavi del porto del Pireo.
Insomma, se il governo italiana pensava di rassicurare gli scettici con l’escamotage della AIIB, finisce in realtà per accrescerne l’inquietudine. E far lievitare il numero di quanti, insieme al prof. Sapelli, sono del parere che il MoU con la Cina non vada firmato. L’escamotage studiato dall’avvocato del popolo Giuseppe Conte per far digerire agli italiani l’abbraccio con la Cina potrebbe rivelarsi più velenoso del fiele?