Marco Orioles
SILICON VALLEY O BALCANI? SCENARI DELLA SOCIETÀ MULTIETNICA PROSSIMA VENTURA
Sono stato chiamato a fornire un contributo di natura sociologica alla discussione sul futuro della nostra società e della sua economia. Lo farò prospettando due scenari, preceduti da alcune domanda preliminari. A cosa somiglierà l’Italia del 2034, ossia quando, come dicono le proiezioni ISTAT (n. 1) essa ospiterà dieci milioni di cittadini stranieri, pari al 15,7% della popolazione, e dunque il doppio rispetto al livello odierno? Il nostro paese si modellerà secondo il paradigma della Silicon Valley, che è una joint venture di culture composta per il 60% da individui nati all’estero (n. 2) ed è come noto protagonista di una dinamica di innovazione permanente e di incessante produzione di ricchezza? Oppure assisteremo ad una crescente balcanizzazione, sulla scia di quei paesi europei dove le minoranze etniche, lungi dall’amalgamarsi e partecipare pariteticamente allo sviluppo economico e culturale della nazione, vivono in enclaves, in vere e proprie «società parallele» (n. 3), e sono vittime di un processo in cui si cumulano sottoccupazione e marginalità?
Per tentare di elaborare una risposta convincente, prendiamo in considerazione le informazioni più recenti sulla partecipazione economica degli immigrati in Italia (n. 4). I dati ci dicono che gli stranieri costituiscono il 10% circa degli occupati e i titolari del 3,5% di tutte le imprese; che incidono per l’11,1% sul PIL (dato del 2008) e versano al fisco un imponibile di oltre 33 miliardi di euro. Cifre significative, cui però va subito affiancata un’importante glossa. L’attuale contributo degli immigrati all’economia incide marginalmente sulla dinamica dell’innovazione (n. 5) Esattamente come nelle altre economie avanzate, gli stranieri aumentano la produzione tradizionale in settori come l’agricoltura, l’industria low tech, specialmente nelle PMI (si ricordi il caso della cosiddetta «Terza Italia», n. 6) e i servizi alla persona (n. 7). Nella cornice del noto «dualismo» (n. 8) strutturale proprio dell’economia «postindustriale» (n. 9), gli immigrati sono chiamati a svolgere i classici bad jobs (n. 10) i lavori dequalificati scartati dalla forza lavoro nativa. L’inclusione degli stranieri ha insomma un costo per i suoi protagonisti, la «segregazione occupazionale», e prevede un trade off tra «cittadinanza economica» e «marginalità sociale» (n. 11). Questo è il «mutuo accordo» (n. 12), l’intesa silenziosa tra le società di accoglienza e i nuovi arrivati: state pure, ma a precise condizioni (n. 13). Un patto che, almeno finora, è andato bene agli stessi stranieri, visto che tra loro prevalgono persone il cui progetto migratorio contempla un miglioramento relativo della propria condizione economica e non la mobilità professionale ascendente.
Questa è la situazione attuale. Ma il futuro? Per preconizzare quanto accadrà negli anni prossimi venturi è certamente utile porre sotto la lente d’ingrandimento la seconda generazione degli immigrati (G2), ossia i figli degli stranieri (n. 14). Un segmento di popolazione che ha superato il milione di unità – è una stima perché non esistono dati precisi sulla materia – e fornisce alle nostre scuole il 9% degli iscritti. Le scienze sociali, in particolare la sociologia, monitorano da tempo i percorsi della G2 nei vari gangli della società italiana. Queste ricognizioni purtroppo non forniscono sempre indicazioni incoraggianti. Pur a fronte di un buon esito del processo di integrazione sul versante culturale e della formazione delle identità, che ha fatto giustamente parlare dell’avvento dei “nuovi italiani” (n. 15), la situazione della G2 in Italia è piagata da alcune problematiche. Che si osservano innanzitutto in due contesti cruciali: scuola e mercato del lavoro.
Cominciamo dall’istruzione. Sebbene in via di miglioramento grazie alle buone performance dei bambini nati nella Penisola, la situazione scolastica della G2 presenta alcuni sintomi di malessere (n. 16)( Difficoltà linguistiche, esiti e rendimento traballanti, ripetenze, drop-out sono fenomeni che caratterizzano i percorsi di non pochi alunni stranieri e producono uno sgradevole divario rispetto agli italiani. Divario che si manifesta anche su un piano assai delicato: l’istruzione superiore. Un recente rapporto OCSE sottolinea che i «figli di immigrati tendono ad avere meno probabilità di conseguire almeno un diploma di scuola secondaria superiore» (n. 17). L’ultimo rapporto ministeriale certifica poi un’altra situazione consolidata: l’orientamento dei ragazzi stranieri verso la formazione tecnica e professionale a scapito delle iscrizioni ai licei che, prediletti dai nativi, sono propedeutici alla prosecuzione degli studi. Il dato è questo: il 44% degli stranieri sceglie i professionali, gli italiani il 20%. Negli istituti professionali gli studenti stranieri sono il 12,6% del totale degli iscritti, nei licei appena il 3,1%.
È stata definita «segregazione formativa» (n. 19) ed è ascrivibile soprattutto a variabili economiche: prevale la scelta di procacciarsi quanto prima un reddito con cui contribuire al magro bilancio familiare (n. 20). Pur efficace per evitare la trappola della disoccupazione che affligge gli italiani (n. 21), questa strategia produce un risultato sistemico discutibile. Di fatto, le traiettorie di autoctoni e stranieri si biforcano, coi primi che assumono le professionalità più consone all’odierna società della conoscenza e i secondi che ne occupano i margini. Nell’indagine che ho condotto nelle scuole friulane, è emerso quanto segue: a) scuole professionali, incidenza percentuale degli stranieri nell’indirizzo commerciale 25%, turistico 26%, assistenza tecnica 30%, servizi sanitari 35%; b) enti di formazione professionale, corsi per autocarrozziere incidenza del 19%, elettricista 38%, acconciatore 32,8%, addetto alle vendite 35%, cuoco 38%, accoglienza turistica 36%.
Suggestioni analoghe possono essere ricavate analizzando il mercato del lavoro. Le indagini condotte in Italia ci rivelano una situazione non dissimile a quella registrata nei paesi europei a forte presenza straniera. Si segnala cioè una canalizzazione della G2 negli stessi lavori poco qualificati svolti dai genitori, quelli delle “cinque P”: pesanti, precari, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente. Lapidario in tal senso il recente rapporto OCSE sul tema: «solo il 7,5% dei giovani stranieri ha un lavoro altamente qualificato, contro il 42,3% dei giovani italiani» (n. 22) Indicazioni analoghe sono scaturite dalla mia ricerca condotta in Friuli Venezia Giulia l’anno scorso (n. 23). Ne è emerso anzitutto che una parte considerevole della domanda di lavoro è soddisfatta da stranieri. Considerando le assunzioni di giovani tra 16 e 25 anni, la quota degli stranieri tra il 2008 e il 2012 non è mai scesa sotto il 22%. A Pordenone le assunzioni di personale straniero di questa fascia d’età sono addirittura il 30% del totale. Questo significa che i giovani stranieri rappresentano un bacino irrinunciabile di forza lavoro per il tessuto economico locale. Siccome però il diavolo sta nei dettagli, guardiamo quali sono i settori maggiormente interessati. Innanzitutto l’agricoltura, dove quasi un’assunzione su due ha interessato cittadini stranieri; nelle costruzioni l’incidenza degli stranieri è pari a ben un terzo; nell’industria siamo al 20%.
Tutto suggerisce che siamo di fronte ad una realtà paradossale ma stringente: la condizione di straniero, o di «uomo marginale» secondo la classica definizione dei sociologi Robert Park e Georg Simmel (n. 24) è ereditaria. È in opera una vera e propria «trasmissione intergenerazionale degli svantaggi sociali» (n. 25) che fa sì che le G2 «condividono con i propri genitori forme di discriminazione socio-professionale ed etnica e, talvolta, uno status sociale» (n. 26) Una situazione che ha indotto il maggior esperto italiano della materia, Maurizio Ambrosini, a scrivere che l’universo della seconda generazione sperimenta sulla propria pelle una stridente «dissonanza tra socializzazione culturale […] riuscita ed esclusione socioeconomica» (n. 27). I ragazzi stranieri possono anche assimilare la cultura italiana e omologarsi ai loro coetanei nativi quanto a stili di vita, valori, mentalità. Ma quando si tratta di transitare dall’età giovanile a quella adulta, per loro il famoso ascensore sociale (uno dei perni del leggendario melting pot americano, n. 28) si inceppa, la mobilità intergenerazionale semplicemente non si attiva (n. 29). È vero che, secondo la teoria, il famoso passaggio «from peddler to plumber to professional» (n. 30) – da venditore ambulante a idraulico a professionista – dovrebbe consumarsi nell’arco non di due ma di tre generazioni, ma è anche vero che l’Italia è una società formalmente meritocratica che, almeno sulla carta, sostiene i giovani nel proprio cammino di autopromozione sociale (n. 31). Insomma, anche nel nostro paese valgono le considerazioni di un importante progetto di ricerca comparativa sulle G2 in Europa: «molti giovani di seconda generazione, a causa del basso livello sociale dei loro genitori, non riescono a raggiungere un alto livello di capitale umano, inteso come conseguimento di risultati formativi e di competenze professionali, necessari per salire la scala sociale» (n. .32).
Altro che Silicon Valley, insomma. Stando così le cose, sono assai ridotte le possibilità che i cittadini italiani di origine straniera facciano parte dell’emergente fascia dei «lavoratori della conoscenza» (n. 33) ovvero, per dirla con l’economista americano Richard Florida (n. 34), di quella «classe creativa» che è protagonista dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo – quella che Jeremy Rifkin (n. 35), riferendosi all’avvento della new economy, ha definito «capitalismo culturale». È evidente che la presenza straniera, composta da persone che padroneggiano vari codici linguistici e culturali e sarebbero in grado di fungere da ponte tra l’Italia e tantissimi mercati esteri, rappresenta un’opportunità che non siamo stati ancora capaci di raccogliere. L’incapacità di potenziare il capitale umano dei giovani di seconda generazione rappresenta anche una beffa alla luce di un dato evidenziato in un recente saggio della rivista Foreign Affairs, che evidenzia come il 27% della domanda di lavoro espressa dalle imprese europee non trova riscontro a causa della mancanza di adeguati skills tra i nostri lavoratori (n. 36). Un fenomeno inestricabilmente connesso con un altro, il brain drain, certificato dall’Anagrafe degli italiani residenti all’estero: tra il 2000 e il 2008 l’Italia ha lasciato partire un milione e mezzo di lavoratori altamente qualificati. Ha buon gioco insomma il commissario europeo uscente all’educazione, Androulla Vassiliou, nel dichiarare come skill shortage e brain drain danneggiano «la nostra futura prosperità».
Insomma, salvo correzioni di rotta, il paesaggio socioeconomico dell’Italia del futuro sarà caratterizzato da stridenti diseguaglianze su basi etniche. Con tutti i rischi del caso. Come ammonisce ancora Ambrosini: «Se non hanno successo nella scuola, e se non riescono a trovare spazio nel mercato del lavoro qualificato, i figli di immigrati rischiano di alimentare un potenziale serbatoio di esclusione sociale, devianza, opposizione alla società ricevente e alle sue istituzioni» (n. 37). Rischia di materializzarsi insomma lo scenario peggiore: quello di una «crescente etnicizzazione della povertà» e della «formazione di una underclass permanentemente esclusa» (n. 38). Quel lumpenproletariat (n. 39) che abbiamo visto in azione più volte nelle banlieues parigine o nei suburbi delle grandi città britanniche, dove un banale episodio di cronaca è sufficiente per innescare vere e proprie rivolte (n. 40).
NOTE
- Le proiezioni possono essere consultate nel sito web dell’ISTAT all’indirizzo: «http://dati.istat.it/».
- Multiculturalism Defines Silicon Valley, Small Business Labs. Tracking and Forecasting the Trends Impacting the Future of Small Business, aprile 2010, «http://www.smallbizlabs.com/2010/04/multiculturalism-defines-silicon-valley.html».
- Questa è l’espressione usata da B. Tibi, Euro-Islam. L’integrazione mancata, Marsilio, Venezia, 2003.
- Dati estrapolati dal Dossier Immigrazione della Caritas Migrantes dell’anno 2014.
- Come osserva G. Dalla Zuanna in Le possenti immigrazioni dell’ultimo ventennio hanno
danneggiato il nostro paese? (in M. Impagliazzo, a cura di, Integrazione. Il modello Italia, Milano, Guerini e Associati 2013, pp. 37-38), molti autori ritengono «che le conseguenze negative delle immigrazioni sovrastino quelle positive. L’economista pessimista mette l’accento su almeno due effetti indesiderati dei sostenuti flussi immigratori verso l’Italia. Egli dice che gli immigrati hanno danneggiato lo sviluppo economico, perché una disponibilità praticamente illimitata di manodopera a basso costo induce gli imprenditori a non investire in innovazione, preferendo insistere su attività immediatamente profittevoli, ad alta intensità di lavoro poco qualificato. Secondo questa prospettiva, le immigrazioni sarebbero una delle cause profonde del ristagno di produttività che affligge l’Italia ormai da un ventennio, e della sua perdita di terreno sui mercati mondiali. Questi discorsi sembrano in linea con i dati sui lavori svolti dagli immigrati, segregati in settori a bassa produttività. Inoltre… gli operai italiani sono le prime vittime delle sostenute immigrazioni, perché – essendo gli stranieri disponibili a lavorare per pochi soldi e senza tutele – favoriscono il permanere di bassi salari e di insalubri condizioni lavorative. Inoltre, come in una reazione a catena, i bassi salari deprimono il potere di acquisto dei lavoratori, limitando i loro consumi e/o i loro risparmi, e spingendo verso il basso il tasso di crescita del reddito e della ricchezza nazionale». Preoccupazioni ingiustificate, almeno secondo l’autore, in quanto «i dati degli ultimi decenni sull’Italia e sugli altri paesi dell’Europa occidentale mostrano – in generale – che […] è proprio la disponibilità di forza lavoro a buon mercato che spinge gli imprenditori a investire anche in nuovi macchinari, e le aree più dinamiche, dopo aver attratto l’arrivo di molti immigrati, continuano a restare all’avanguardia dello sviluppo» (ibidem, p. 41). - Per un’analisi sulla cosiddetta “Terza Italia”, culla delle PMI a vocazione manifatturiera e dei distretti industriali, vedi A. Bagnasco, Tre Italie: la problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mulino 1977; Id., La costruzione sociale del mercato, Bologna, Il Mulino 1988; C. Trigilia, Grandi partiti e piccole imprese, Bologna, Il Mulino, 1986. Negli ultimi due decenni del XX secolo, le imprese della Terza Italia hanno cominciato a reclutare manodopera extracomunitaria, che nel giro di pochi anni è diventata una componente fondamentale della forza lavoro di questo mondo produttivo. Come osserva L. Perotti (Le progressioni di carriera degli immigrati, in A. Colombo, G. Sciortino, a cura di, Stranieri in Italia. Trent’anni dopo, Bologna, Il Mulino 2008, pp. 208-209), la crescente presenza dei lavoratori stranieri nei piccoli e grandi capannoni del Belpaese si deve prevalentemente alla «tendenza dei giovani italiani a «fuggire dalle fabbriche», con la conseguenza che «questo comporti nel medio periodo carenze anche di lavoratori dotati di professionalità maggiori (conseguenza di ingressi precoci in azienda e di vari anni di esperienza»). È il cosiddetto labour shortage, vale a dire «lo squilibro quantitativo tra le professionalità richieste e quelle offerte» o, in altre parole, «il progressivo svuotamento delle gerarchie operaie in riferimento a particolari posizioni con contenuti di specializzazione e responsabilità (più o meno estesa) che, se prima poteva essere vissuto come allarme per il futuro, oggi è divenuto un problema da affrontare nell’immediato». Per un inquadramento del fenomeno dei «nuovi operai» mi permetto di rimandare al mio Sedia a 44 gambe, Recco, Le Mani, 2002.
- A. Venturini, Extend of competition between and complementary among national and third-world migrant workers in the labour market: an exploration of the italian case, in The jobs and effects of migrant workers in Italy, «International Migration Papers», n. 11, Geneva. 1996. Id., Le migrazioni dei paesi sud europei: un’analisi economica, Monografia del Dipartimento di Scienze Economiche, n. 2, Università di Bergamo, 1996; Id., Do immigrants working illegally reduce the natives’s legal employment? Evidence from Italy, paper preparato per CEPR Seminar on Illegal Migrants, Atene, 1997: Id., C. Villosio, Foreign Workers in Italy: Are They Assimilating to Natives? Are They Competing Against Natives? An Analysis by the SSA Dataset, «Quaderni del Dipartimento di Scienze Economiche», Università di Bergamo, n. 3, 1998.
- La natura «duale» del mercato del lavoro delle economie avanzate e la collocazione dei migranti nel mercato «secondario» è un fenomeno acclarato e certificato da decenni di studi e ricerche. Per un contributo pionieristico cfr. M.J. Piore, Birds of passage: migrant labor and industrial societies, Cambridge, Cambridge University Press, 1979, nonché dello stesso autore insieme a S. Berger, Dualism and Discontinuity in Industrial Societies, Cambridge, Cambridge University Press, 1980. Per un’analisi generale di carattere sociologico della «balcanizzazione» o «segmentazione» del mercato del lavoro vedi D.S. Massey et. al,, Theories of International Migration: A Review and Appraisal, «Population and Development Review», vol. 19, n. 3, 1993, pp. 431-466; E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1996. Vedi anche S. Collinson, Le migrazioni internazionali in Europa, Bologna, Il Mulino, 1994; A.M. Chiesi, I. Regalia, M.. Regini (a cura di), Lavoro e relazioni industriali in Europa, Roma, Nis, 1995; L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Roma-Bari, Laterza 2004; R. Sciarrone, Il lavoro degli altri e gli altri lavori, «Quaderni di Sociologia», XL, 11, 1996; G. Scidà (a cura di), Immigrati e lavoro in Italia, «Sociologia del Lavoro», 64, 1996; P. Stalker, The Work of Strangers, Geneva, Ilo, 1994.
- Il rimando obbligatorio qui è alla fondamentale opera di D. Bell, La società postindustriale, Milano, Edizioni di Comunità, 1975. La società postindustriale rappresenta una nuova tappa evolutiva della società moderna, non solo dal punto di vista delle trasformazioni economiche e produttive ma anche al livello della strutturazione della società e della sua cultura. Alcuni autori, a partire da Jean-Francois Lyotard (La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 2014), hanno annunciato direttamente l’esistenza di una cesura e il conseguente avvento della società «postmoderna». Altri, tra cui il sociologo Anthony Giddens nel suo famoso The consequences of modernity (Cambridge, Polity, 1990), ritengono invece che staremmo vivendo un nuovo stadio della modernità caratterizzato da alcune evoluzioni che ne intensificano e accelerano le dinamiche centrali. Questa discussione è tuttora in corso, alimentata da autori come Z. Bauman, che parla di “modernità liquida” (Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2012), e Ulrich Beck, che assieme al già citato Giddens punta l’attenzione sulla natura «riflessiva» della nostra condizione di moderni (U. Beck, A. Giddens, Modernizzazione riflessiva:politica, tradizione ed estetica nell’ordine sociale della modernità, Trieste, Asterios, 1999).
- Nella letteratura americana, che ha poi influenzato quella degli altri paesi, si parla anche dei cosiddetti «3 d’s work», ossia i lavori delle tre d (dirty, dangerous, demanding). Ha avuto successo anche l’etichetta proposta del sociologo Ritzer di «mcjobs», dal nome della catena americana di fast food McDonald’s, nota per offrire ai suoi dipendenti condizioni di lavoro alquanto sgradevoli: vedi G. Ritzer, Il mondo alla McDonald’s, Bologna, Il Mulino, 1996. Un’altra definizione in uso (cfr. M. Ambrosini, Il futuro in mezzo a noi. Le seconde generazioni scaturite dall’immigrazione nella società italiana dei prossimi anni, in M. Ambrosini, S. Molina, (a cura di), Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’ìmmigrazione in Italia, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 2004, p. 14) è quella dei «lavori delle cinque P: pesanti, precari, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente». Per un inquadramento sulle modalità dell’inclusione lavorativa degli immigrati in Europa rimandiamo a A.F. Heath, S.Y. Cheung (a cura di), Unequal Chances: Ethnic Minorities in Western Labour Markets, Oxford, Oxford University Press, 2007; I. Kogan, Labor markets and economic incorporation among recent immigrants in Europe, «Social Forces», 85, 2, 2006, pp. 697- 721. Sull’avvio dei processi migratori in Europa cfr. G.P. Freeman, Modes of Immigration Politics in Liberal Democratic States, «International Migration Review», winter 1995; R. Brubaker, Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1992; S. Castles, H. Booth. T. Wallace, Here for Good: Western Europe’s New Ethnic Minorities, London, Pluto Press, 1984; K.J. Bade, Migration in European History, Malden, MA, Blackwell 2003; G.P. Freeman., Immigrant Labour and Racial Conflict in Industrial Societies: The French and British Experience 1945-1973, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1979; C. Joppke, Immigration and the Nation-State: The United States, Germany, and Great Britain, Oxford, Oxford University Press, 1999; S. Castles S., M.J. Miller, The Age of Migration, New York, Guilford Press, 2003; M.J. Piore, The Shifting Grounds for Immigration, «Annals of the American Academy of Political and Social Science», 485, 1986; M.J. Miller, Introduction, «International Migration Review», XX, 4, 1986, 740-757.
- M. Colasanto, M. Ambrosini, L’integrazione invisibile. L’immigrazione in Italia tra cittadinanza economica e marginalità sociale, Milano, Vita e Pensiero 1993. Cfr. A. Accornero, Nuove forme di disuguaglianza sui mercati del lavoro, in L. Gallino (a cura di), Disuguaglianze ed equità in Europa, Roma-Bari, Laterza 1993; E. Allasino et. al, La discriminazione dei lavoratori immigrati nel mercato del lavoro in Italia, «International Migration Papers», Geneva, International Labour Office, 67, I, 2003.
- Massey D.S., Reichert J.S.R., Guestworker Programs; Evidence from Europe and the United States and Some Implications for U.S. Policy, «Population Research and Policy Review», I, 1982, p. 3.
- Questo è il nocciolo della tesi sostenuta nei saggi di A. Colombo, G. Sciortino, Assimilati ed esclusi, Bologna, Il Mulino, 2012, e di A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 1999.
- Da questo punto in poi attingerò dal mio La seconda generazione di migranti. Verso quale integrazione? (Roma, Carocci, 2014), dove ho condotto un’esplorazione a tutto campo sulla questione dell’integrazione dei figli degli immigrati.
- La letteratura e le ricerche condotte in Italia segnalano la prevalenza, per quanto concerne la formazione delle identità personali da parte delle G2, di esiti assimilatori, nel senso classico del termine sociologico di «assimilazione» come definito negli anni ’20 del XX secolo da R.E. Park ed E. W. Burgess (Introduction to the Science of Sociology, Chicago, University of Chicago Press 1924, p. 735): «un processo di interpenetrazione e fusione in cui persone e gruppi acquisiscono le memorie, i sentimenti e gli atteggiamenti di altre persone e gruppi e, condividendo le loro esperienze e la loro storia, sono incorporati con essi in una vita culturale comune». Per una discussione in merito vedi Gordon M.M., Assimilation in American Life, Oxford University Press, New York 1966; Child L.L., Italian or American? The Second Generation in Conflict, Yale University Press, New Haven 1943; W.L. Warner, L. Srole, Social Systems of American Ethnic Groups, New Haven, Yale University Press, 1945; Brown S. K., Bean F. D., Assimilation Models, Old and New: Explaining a Long-Term Process, «Migration Information Source», ottobre 2006, «http://www.migrationinformation.org/USfocus/display.cfm?ID=442». Cfr. F. White, Street Corner Society, Chicago, University of Chicago Press, 1943. L’assimilazione, naturalmente, non è l’unico esito possibile: si riscontrano infatti altre possibilità, tra cui la formazione di identità «reattive», frutto di un rifiuto da parte del soggetto di far propria una cultura considerata come estranea, col conseguente ripiegamento verso le identità culturali dei paesi di origine. Questa modalità si manifesta soprattutto nelle comunità islamiche, le più restie ad abbandonare il proprio bagaglio culturale nonché pronte, in una proporzione non nota ma tale comunque da destare preoccupazione, ad abbracciare le versioni più fondamentaliste e radicali dell’Islam anche per enfatizzare la contrapposizione con i nativi. Il dibattito su Islam ed Europa è ricchissimo, anche con riguardo alla situazione in Italia, e conta di un numero sterminato di opere. Qui possiamo solo rimandare a qualche lavoro di ottima fattura come O. Roy, Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam, Milano, Feltrinelli, 2003; J. Cesari, Musulmani in Occidente, Firenze,Vallecchi, 2005; L. Cabria Ajmar, M. Calloni, L’altra metà della luna. Capire l’islam contemporaneo, Genova, Marietti, 1993; C. Giudici, L’Italia di Allah. Storie di musulmani fra autoesclusione e desiderio di integrazione, Milano, Bruno Mondadori, 2005; S. Allievi, Musulmani d’Occidente. Tendenze dell’Islam europeo, Roma, Carocci, 2005; Id., Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Torino, Einaudi, 2003; E. Pace, L’islam in Europa: modelli di integrazione, Roma, Carocci, 2004; J. Daniel, U. Eco, A. Riccardi, Islam e Occidente. Riflessioni per la convivenza, Roma-Bari, Laterza, 2002. Per uno studio molto interessante sulla realtà italiana, che delinea una tipologia di strategie identitarie dei figli degli immigrati, cfr. Cfr. R. Bosisio, E. Colombo, L. Leonini, P. Rebughini., Stranieri & Italiani. Una ricerca tra gli adolescenti figli di immigrati nelle scuole superiori, Roma, Donzelli 2005. Vedi anche E. Colombo, L. Leonini, P. Rebughini, Nuovi italiani, Forme di identificazione fra i figli di immigrati inseriti nella scuola superiore, in «Sociologia e politiche sociali», vol. 12, n. 1, 2009. Interessanti anche le resultanze della ricerca di G. Dalla Zuanna, P. Farina, S. Strozza, Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, Bologna, Il Mulino, 2009. Altre opere da consultare e piene di spunti interessanti sono G. Gilardoni Somiglianze e differenze. L’integrazione delle nuove generazioni nella società multietnica, Milano, FrancoAngeli, 2008; E. Besozzi, M. Colombo, M. Santagati, Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Milano, FrancoAngeli, 2009; R. Ricucci, Italiani a metà. Giovani stranieri crescono, Bologna, Il Mulino, 2010.
- Oltre al rapporto annuale del MIUR sugli alunni con cittadinanza non italiana, esistono diverse ricerche ad hoc compiute da singoli ricercatori e istituzioni di ricerca, ad esempio l’ISMU di Milano. Si consultino ad esempio M. Santagati, Formazione chance di integrazione. Gli adolescenti stranieri nel sistema di istruzione e formazione professionale, Milano, FrancoAngeli, 2011; L. Thieghi M. Ognissanti M. (a cura di), Seconde generazioni e riuscita scolastica, Milano, FrancoAngeli, 2009; A. Luciano, M. Demartini, R. Ricucci, Istruzione dopo la scuola dell’obbligo. Quali percorsi per gli alunni stranieri, in G. Zincone (a cura di), Immigrazione: segnali di integrazione. Sanità, scuola e casa, Bologna, Il Mulino, 2009; O. Casacchia et al., Studiare insieme, crescere insieme? Un’indagine sulle seconde generazioni in dieci regioni italiane, Milano, FrancoAngeli, 2008; S. Molina (a cura di), I figli dell’immigrazione nella scuola italiana, Torino, Fondazione Agnelli, 2011, «http://www.fidae.it/news/30-11-2010-fond-agnelli-immigrazione-escuola-dossier.pdf»; P. Canino, Stranieri si nasce e si rimane?, «Quaderni dell’Osservatorio Fondazione Cariplo», n. 3, 2010; E. Besozzi, M. Colombo, M. Santagati, Formazione come integrazione. Strumenti per osservare e capire i contesti educativi multietnici, Milano, Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità, 2010; A. Ravecca, Studiare nonostante. Capitale sociale e successo scolastico degli studenti di origine immigrata nella scuola superiore, Milano. FrancoAngeli 2009.
- Oecd, Lavoro per gli immigrati. L’integrazione nel mercato del lavoro in Italia, Oecd publishing, 2014, p. 128.
- Alunni con cittadinanza non italiana. L’eterogeneità dei percorsi scolastici. Rapporto nazionale A.s. 2012/2013, «http://www.istruzione.it/allegati/2014/Miur_2012_2013.pdf».
- Di «segregazione formativa», o di «canalizzazione», parlano E. Besozzi, M. Colombo, M. Santagati, Formazione come integrazione. Strumenti per osservare e capire i contesti educativi multietnici, Milano, Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità 2010, e Mantovani D., Seconde generazioni all’appello: studenti stranieri e istruzione secondaria a Bologna, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo 2008.
- In letteratura si tende a spiegare questo fenomeno facendo riferimento al ruolo centrale della famiglia, ovvero al fatto che i genitori delle G2 «li sostengono di meno nel percorso scolastico rispetto a quelli autoctoni» (Santagati M., Formazione chance di integrazione. Gli adolescenti stranieri nel sistema di istruzione e formazione professionale, Milano, FrancoAngeli 2011, p. 63).«Non sorprende», spiega A. Luciano (Introduzione, in R. Ricucci, Italiani a metà. Giovani stranieri crescono, Il Mulino, Bologna 2010, p. 18), «che le famiglie immigrate, in difficoltà nel districarsi nei meandri della burocrazia scolastica, intimorite da insegnanti di cui non padroneggiano bene la lingua neanche quando hanno alti livelli di istruzione, non sempre siano in grado di sostenere la motivazione dei propri figli quando i risultati scolastici non sono buoni. […] E quando i risultati scolastici non sono buoni, il consiglio che arriva dagli insegnanti di ripiegare su un corso breve di formazione professionale trova un terreno favorevole e un atteggiamento rinunciatario».
- La discussione qui sarebbe lunga, e qui non c’è sufficiente spazio. Può tuttavia essere utile evidenziare quanto riscontrato in un recentissimo studio della CGIA di Mestre, che così ne presentava i risultati: «Estetisti, parrucchieri, colf, badanti, camerieri, magazzinieri, pony express, etc., sono i lavori che in questi ultimi anni non hanno conosciuto la crisi. [Tra il 2008 e il 2013] gli estetisti, i parrucchieri, le colf e le badanti hanno registrato un aumento in termini assoluti pari a oltre 314 mila unità (+71,7%). Seguono i camerieri, con un incremento di posti di lavoro pari a poco più di 251.500 (+31,5%) e i magazzinieri e i pony express, con oltre 125.600 occupati in più (+43,2%). Appena fuori dal podio troviamo cuochi, baristi e ristoratori, con quasi 123.500 nuovi occupati (+14%) e le attività legate alla guardiania e ai vigilanti non armati. Nonostante l’aumento in valore assoluto di quest’ultimo settore sia stato abbastanza contenuto e pari a quasi 76.000 unità, l’incremento percentuale è stato esponenziale: + 182,4 %». Qualunque considerazione astratta e ampollosa si possa fare, è indiscutibile che chiunque voglia o finisca per svolgere i famosi «mestieri» compie una scelta razionale. Per consultare la ricerca ciccare qui: «http://www.cgiamestre.com/2014/07/estetisti-parrucchieri-colf-e-badanti-le-professioni-chehanno-vinto-la-crisi/».
- Oecd, Lavoro per gli immigrati. L’integrazione nel mercato del lavoro in Italia, Oecd publishing, 2014, p. 134.
- M. Orioles, La seconda generazione di migranti in Friuli Venezia Giulia. Integrazione sociale, scolastica, lavorativa, Dipartimento di Scienze Umane, Università degli Studi di Udine, ottobre 2013.
- Robert Park, Migration and the Marginal Man, in R. Sennett (ed.), The Classic Essays on the Culture of Cities, Appleton-Century-Crofts, New York 1969; Id., Cultural Conflict and the Marginal Man, in E.V. Stonequist (ed.), The Marginal Man, New York, Charles Scribner’s Son, 1937) scrisse che l’immigrazione creava «l’uomo marginale», sospeso tra due società e due culture, con un carattere instabile dovuto al fatto di essere alle prese con un conflitto culturale. Come ha osservato E. Colombo (Partecipazione senza assimilazione. L’idea di appartenenza tra i giovani figli di immigrati in Italia, in Figli di migranti i Italia. Identificazioni, relazioni, pratiche, Torino, Utet 2010, p. 12), l’immigrato ha «un posizionamento sociale specifico tra tue mondi, a nessuno dei quali si appartiene pienamente». Vedi anche G. Simmel, Lo straniero, Torino, Il Segnalibro, 2006.
- Citiamo qui Mariagrazia Santagati (Esperienza, eredità, ethos: le parole chiave del percorso d’inclusione, in «Libertàcivili», n. 1, 2011, p. 33), la quale osserva che poiché «le società contemporanee sono solo parzialmente meritocratiche e l’ereditarietà continua a giocare un ruolo importante, le storie di vita dei figli di immigrati mostrano, di fatto, l’esistenza di ambivalenze e contraddizioni che continuano ad alimentare un processo di trasmissione intergenerazionale degli svantaggi sociali: la mobilità socio-professionale ascendente non costituisce affatto un traguardo scontato per i figli dell’immigrazione e, di frequente, si assiste a un loro imbrigliamento in lavori poco qualificati». E ancora: «le ricerche empiriche hanno evidenziato che la nascita nella società di accoglienza non garantisce ai figli la certezza di un inserimento positivo: al contrario, il percorso si mostra accidentato e dagli esiti incerti, le differenze non scompaiono, le condizioni socioeconomiche rimangono precarie e, in alcuni casi, si va incontro a forme di insuccesso e peggioramento». Queste osservazioni vengono riproposte nel monumentale studio comparativo sulle seconde generazioni in Europa curato da M. Crul, J. Schneider e F. Lelie (The European Second Generation Compared. Does the Integration Context Matter?, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2012), che ricapitolando i risultati dell’indagine così commentano a p. 19: «la nostra ricerca sembra suggerire che gli svantaggi [che caratterizzano la condizione dei primomigranti] sono ancora presenti nella seconda generazione» e che questo «si debba soprattutto ai minori livelli di capitale umano e allo status sociale più basso legato alle origini».
- M. Santagati, Esperienza, eredità, ethos: le parole chiave del percorso d’inclusione, in «Libertàcivili», n. 1, 2011, p. 33. Nel cercare di far luce sui fattori che possono condurre a questa situazione, gli studiosi hanno puntato l’attenzione anche su specifiche «penalità etniche», ovvero una vera e propria condizione ascritta (l’appartenenza etnica originaria) propria del giovane di seconda generazione che, anche se dotato di un buon livello di qualificazione e dunque in grado di cimentarsi in occupazioni più premianti, sperimenta sulla propria pelle la discriminazione. Per una discussione sulle ethnic penalties vedi A.F. Heath, C. Rothon, E. Kilpi, The second generation in Western Europe: Education, unemployment and occupational attainment, «Annual Review of Sociology», 34, 2008, pp. 211-235. Vedi anche A.F. Heath, S.Y. Cheung, Unequal Chances. Ethnic Minorities in Western Labour Markets, Oxford/New York, Oxford University Press, 2007. In merito alle presunte discriminazioni che penalizzerebbero le G2 al momento di accedere al mercato del lavoro, segnaliamo la situazione dei giovani turchi in Europa. Un lavoro di ricerca evidenzia che il «trattamento sfavorevole sperimentato durante la ricerca del lavoro è ampiamente testimoniato dai turchi di seconda generazione. Almeno due rispondenti su tre, in tutte le città, ha sperimentato una simle esperienza e la attribuisce al suo background etnico». L. Lessard-Phillips, R. Fibbi, P. Wanner, Assessing the labour markert position and its determinants for the second generation, in M. Crul, J. Schneider e F. Lelie, The European Second Generation Compared. Does the Integration Context Matter?, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2012, p. 190. Identiche indicazioni sono emerse da un grande progetto europeo, il cui campione intervistato ha avuto la netta percezione dell’esistenza di «discriminazione da parte dei datori di lavoro e di un latteggiamento razzista nei posti di lavoro. La discriminazione comincia con la selezione dei candidati e durante il reclutamemto». Aa.Vv., Comparative Report about Second Generation Migrants in Europe, Bridge, project ‘Successful Pathways for the Second Generation of Migrants’, 2010, «http://www.bridge2g.eu/com_study.php», p. 13. «La discriminazione», si sottolinea in un altro lavoro, «può assumere tre forme differenti collegate sia all’ingresso nel mercato del lavoro sia nello stesso luogo di lavoro: a) regole discriminatorie nel reclutamento; b) discriminazioni sul posto di lavoro; c) discriminazioni nell’avanzamento di carriera». Aa.Vv., Report about Second Generation Migrants and the pedagogical intercultural approach based on autobiographical narratives in Italy, Bridge project ‘Successful Pathways for the Second Generation of Migrants’, 2010, p. 16, http://www.bridge2g.eu/partners/milano/mil_2g.php».
- M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2005, p. 168.
- La citatissima espressione melting pot nasce per indicare sia la composizione socioculturale degli Stati Uniti, caratterizzati dalla compresenza di gruppi sociali di diverse provenienze nazionali, sia e soprattutto il superamento di ogni divisione su base etnica e la conseguente realizzazione di una società capace di promuovere l’integrazione, ovvero l’inclusione di tutte le sue componenti e la loro valorizzazione. Il concetto fu proposto per la prima volta alla fine del 1700 da J. H. St. John de Crèvecoeur, (Letters From An American Farmer and Sketches of 18th-Century America, New York, Penguin 1981) che sottolineò come in America «individui provenienti da tutte le nazioni si fondono in una nuova razza di uomini» e come il nuovo americano fosse un «incrocio trra inglesi, scozzesi, irlandesi, francesi, olandesi, tedeschi e svedesi», che si lascia «dietro tutti gli antichi pregiudizi e gli antichi costumi, e ne acquisisce di nuovi dal nuovo modello di vita che ha adottato». L’immagine fu articolata con prosopopea nella famosa piece teatrale di I. Zangwill, The Melting Pot: A Drama in FourActs (New York, Arno Press 1975). Da allora, come osserva, la metafora culinaria è stata ripresa, sviluppata e allargata da numerosi altri autori, che nel medesimo proposito di definire la peculiare realtà multietnica americana hanno a loro volta parlato di «pentola a pressione, stufato, insalata, macedonia, mosaico, caleidoscopio, arcobaleno, irradiazione, orchestra, danza, telaio, terreno di scarico delle condotte, stagno del villaggio, vasca di raccolta, cul-de-sac» (S. P. Huntington, La nuova America. Le sfide della società multiculturale, Milano, Garzanti 2005, p. 154.). C’è da dire, tuttavia, che il modello melting pot prevede un passaggio obbligatorio: l’assimilazione culturale, ossia l’omologazione degli stranieri ai modelli culturali e ai valori della maggioranza WASP (white, anglosaxon, protestant). Questo paradigma è andato in crisi con l’ascesa delle rivendicazioni cosiddette «multiculturali», iniziate negli anni ’60 sulla scia della questione dei neri e, poi, di tutte le altre minoranze svantaggiate. Questo movimento ha riorientato se non sovvertito il dibattito sull’integrazione, poiché le minoranze in questione non solo hanno ripudiato l’assimilazione, considerata come una forma di «arroganza bianca» nonché frutto e indicatore di «etnocentrismo», ma hanno cominciato a pretendere il rispetto per la propria differenza e politiche pubbliche mirate conservazione e salvaguardia di tutte le diversità. Con esiti e proposte molto controversi, tra cui la pretesa di sostituire il lessico imperante (epurare termini come “negro”, ad esempio) con il linguaggio «politicamente corretto» su cui ha riversato la sua ironia Robert Hughes nel suo La cultura del piagnisteo: la saga del politicamente corretto (Milano, Adelphi, 2003). Sul multiculturalismo il dibattito è infinito, per questo ci limitiamo a rimandare ad una pugno di opere selezionate in lingua italiana: E. Colombo, Le società multiculturali, Roma, Carocci 2002; M.L. Lanzillo, Il multiculturalismo, Roma-Bari, Laterza 2005; G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Bur, Milano, 2002; A. Semprini, Il multiculturalismo. La sfida della diversità nelle società contemporanee, Milano, Angeli 2000; M. Martiniello, Le società multietniche, Bologna, Il Mulino, 2000; T. Bonazzi, M. Dunne M. (a cura di), Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, Bologna, Il Mulino, 1994; U. Melotti (a cura), L’abbaglio multiculturale, Roma, Seam, 2000; J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Le lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2005; W. Kymlicka W, La cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino 1999.
- Il rapporto Oecd (Lavoro per gli immigrati. L’integrazione nel mercato del lavoro in Italia, Oecd publishing, 2014, p. 134) a tal proposito osserva: «Questo scenario è particolarmente preoccupante in quanto suggerisce che le divisioni attualmente osservabili sul mercato del lavoro tra italiani e stranieri persisteranno. Senza politiche mirate, i figli di immigrati potranno condividere il destino della prima generazione, in questo modo deluderanno le aspettative dei genitori che hanno scelto l’emigrazione come un mezzo per migliorare le condizioni della loro famiglia.»
- Cfr. R. Suro, Strangers among Us: How Latino Immigration is Transforming America, New York, Akfred A. Knopf, 1998.
- Non sembra superfluo ricordare il dettato della nostra carta costituzionale, il cui articolo 3 afferma testualmente: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Questo è lo spirito della Costituzione; bisogna vedere se vale anche per i nuovi cittadini, formalmente non tali ma sostanzialmente sì, basti pensare al peso demografico raggiunto dagli stranieri nella società italiana e alla fortissima presenza nelle scuole di ogni ordine e grado.
- Aa.Vv., Comparative Report about Second Generation Migrants in Europe, Bridge project ‘Successful Pathways for the Second Generation of Migrants’, 2010.
- Come nota S. Bagnara (Lavoro e lavoratori nella società della conoscenza, «Treccani.it», http://www.treccani.it/scuola/tesine/tecnologie_dell_informazione/3.html) nella sua voce ad hoc della Treccani, le «occupazioni della conoscenza» afferiscono a svariati settori quali «informatica, ingegneria e architettura, ricerca, istruzione, arte, design, intrattenimento e comunicazione». Tali professioni, precisa l’autore, «hanno due caratteristiche in comune: non producono né scambiano prodotti fisici, ma informazioni e idee, e il valore della prestazione è determinato solo in maniera minima dal tempo impegnato, quanto piuttosto dal grado di innovazione e dalla qualità delle idee che producono». Com’è evidente, questi mestieri sono legati allo sviluppo della cosiddetta società dell’informazione, sui cui contorni economisti e studiosi discutono da diverso tempo (per un approfondimento vedi D. Lyon, La società dell’informazione, Bologna, Il Mulino 1991; A. Mattelart., Storia della società dell’informazione, Torino, Einaudi, 2002; M. Castells, The Rise of the Network Society, The Information Age: Economy, Society and Culture, Vol. I. Cambridge, MA; Oxford, UK, Blackwell, 1996). Il perno della società dell’informazione sono, com’è noto, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), in particolare la loro crescente pervasività e le trasformazioni innescate dal loro ruolo nei processi produttivi e lavorativi. Su questi sviluppi ha appuntato la sua attenzione l’Unione Europea, che nella promozione della cosiddetta «società della conoscenza» riconosce uno dei suoi impegni più solenni, come certificato dal famoso “libro bianco” della Commissione europea del 1995 intitolato Insegnare e apprendere. Verso la società della conoscenza.
- R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa: stile di vita, valori e professioni, Milano, Mondadori 2003
- J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Milano, Mondadori 2000.
- E. Campanella, Come Home, Europeans, «Foreign Affairs», 16 ottobre 2014, «http://www.foreignaffairs.com/articles/142218/edoardo-campanella/come-home-europeans».
- M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2005, p. 168.
- M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2005, p. 171. Il tema della marginalità degli immigrati e in particolare delle seconde generazioni è molto battuto in Europa, dove non mancano comunità che non solo non si sarebbero affatto integrate, ma nemmeno lo desiderano. È il caso soprattutto degli stranieri di origine musulmana, che anche col passare delle generazioni sembrano, anziché amalgamarsi nella società di accoglienza, conservare l’identità originaria e riprodurre lo spinoso conflitto tra Islam e Occidente attraverso comportamenti che, al limite, sfociano nell’adesione ai movimenti estremisti se non nella militanza in gruppi terroristici. Il caso più clamoroso è forse quello dei turchi di Germania, sollevato recentemente dalla dichiarazione del cancelliere Merkel che, insieme al primo ministro britannico Cameron, ha dichiarato che l’esperienza multiculturale, ovvero l’approccio buonista dello Stato che consente ai migranti di perpetuare la propria specificità culturale anche a scapito della coesione sociale, è da dichiararsi concluso con un sonoro fallimento. Tale tesi è stata sviluppata da Thilo Sarrazin, membro dell’esecutivo della banca centrale tedesca, il cui libro Deutschland schafft sich ab: wie wir unser Land aufs Spiel setzen (München : Deutsche Verlags-Anstalt, 2012), è stato discusso in tutta Europa. Ma la complicata situazione della seconda e terza generazione di immigrati turchi in Germania era già ampiamente nota e studiata in una pletora di ricerche, che hanno evidenziato una lunga serie di indicatori di disagio. Ad esempio, a scuola il tasso di drop-out tra i ragazzi turchi è tre volte superiore rispetto ai nativi (L.Lucassen, The Immigrant Threat: The Integration of Old and New Migrants in Western Europe since 1850, Chicago, University of Illinois Press, 2005, p. 164.) Il percorso d’istruzione secondario più alto, il Gymnasium, vede una presenza turca pari a solo il 6% c ontro un quarto circa dei nativi (G. Avci, Comparing Integration Policies and Outcomes: Turks in the Netherlands and Germany, «Turkish Studies», 7, 1, 2006, p. 76.). Quanto al lavoro, le G2 turche hanno meno probabilità rispetto ai nativi e agli altri migranti di svolgere lavori qualificati e hanno più probabilità di svolgere lavori non qualificati e precari, e chi lavora percepisce meno rispetto agli autoctoni (S. Worbs, The Second Generation in Germany: Between School and Labor Market, «International Migration Review», Volume 37, n. 4, December 2003, pp. 1011–1038; F. Kalter, N. Granato, Educational Hurdles on the way to structural assimilation in Germany, in A.F. Heath, S.Y. Cheung (a cura di), Unequal Chances: Ethnic Minorities in Western Labour Markets, Oxford, Oxford University Press, 2007) Il loro tasso di disoccupazione è doppio e più alto delle altre minoranze: 18% contro la metà dei nativi (G. Avci, Comparing Integration Policies and Outcomes: Turks in the Netherlands and Germany, «Turkish Studies», 7, 1, 2006, p. 74)Infine, la loro presenza nelle statistiche giudiziarie è assai superiore rispetto a polacchi, italiani, serbi, romeni: fino a cinque volte di più (H.J. Alberecht, Ethnic Minorities, Crime and Criminal Justice in Germany, «Crime and Justice», 21, 1997, «http://www.jstor.org/pss/1147630».) Una situazione analoga contraddistingue la Francia, dove la disoccupazione della G2 è cronica (cfr. P. Simon, France and the unknown second generation. Preliminary results on social mobility, «International Migration Review», 37, 4, 2003, pp. 1091-1119; D.A. Meurs, A. Paillhé, P. Simon, The persistency of intergenerational inequalities linked to immigration. Labour market outcomes for immigrants and their descendants in France, «Populations», 61, 5-6, 2006, pp. 654-682). Il quadro nel paese transalpino è poi aggravato dalla folle politica di concentrare i nuclei familiari di origine straniera nei giganteschi complessi di edilizia popolare delle periferie, le famose banlieus, bomba ad orologeria e focolaio permanente di tensioni e conflittualità. Sembra quasi superfluo ricordare la rivolta del 2005, visto che i nostri media ne hanno parlato diffusamente. Per un’analisi del problema vedi V. Le Goaziou, L. Mucchielli (a cura di), Quand les banlieues brûlent. Retour sur les émeutes de novembre 2005, Paris, Le Découverte 2006; U. Melotti (a cura di), Le banlieus. Immigrazione e conflitti urbani in Europa, Roma, Meltemi 2007; H. Lagrange, M. Oberti, La rivolta delle periferie. Precarietà urbana e protesta giovanile: il caso francese, Milano, Bruno Mondadori 2006; S. BodyGendrot, Ville et violence. L’irruption de nouveaux acteurs, Paris, Presses Universitaires de France, 1993; Id., Les villes. La fin de la violence?, Paris, Presses de Sciences Po, 2001; O. Pironet, Banlieus: chronologie 1973-2006, «Le Monde diplomatique», ottobre-novembre 2006. Il problema è acuto anche in Gran Bretagna, dove le difficoltà di integrazione della G2 di fede musulmana sono sfociate nel più tremendo degli sviluppi: il terrorismo. Non si può dimenticare che l’attentato al sistema dei trasporti di Londra del 7 luglio 2005 è stato concepito ed eseguito da un gruppo di giovani di seconda generazione di origine pakistana. Per una ricostruzione dell’evento e un’analisi dello sfondo in cui è maturato vedi R.S. Leiken. Europe’s Angry Muslims. The Revolt of the Second Generation, New York, Oxford University Press, 2012. La contraddizione di una politica generosa di accoglienza qual è quella messa in atto negli ultimi decenni dalle autorità nazionali e locali britanniche e un simile esito catastrofico è stata evidenziata con lucida amarezza dal filosofo conservatore R. Scruton, che nel suo L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica (Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 4-5). scriveva che era davvero strano «il fatto che quei musulmani che si stabiliscono, si integrano e acquisiscono un certo grado di fedeltà alle istituzioni e ai costumi occidentali spesso allevino dei figli che, malgrado siano cresciuti in Occidente, s’identificano nell’opposizione ad esso – con un antagonismo così fiero da sfociare in un desiderio di annientamento». Un’ultima nota sui giorni nostri. Ha fatto molto scalpore la presenza, tra le fila dei miliziani del cosiddetto Stato Islamico che nel 2014 ha conquistato una parte dell’Iraq compiendo crimini e stragi inenarrabili, ci siano numerosi – oltre tremila, secondo il capo dell’antiterrorismo europeo – immigrati residenti o nati in Europa. Tra questi, il giovane che è stato battezzato dai media “Jihadi John”, che si è distinto per essere apparso in alcuni filmati nei quali, rivolgendosi ai governi e alle opinioni pubbliche occidentali in perfetto accetto londinese, ha decapitato tre ostaggi. Per un commento mi permetto di rimandare a M. Orioles, La lucida “profezia” del filosofo Roger Scruton, «Il Quotidiano del Friuli Venezia Giulia», 3 settembre 2014, e, sullo stesso giornale, Le decapitazioni “spot” mediatici, 16 settembre 2014.
- A distanza di dodici anni dalla pubblicazione del mio Sedia a 44 gambe, saggio dedicato all’inclusione lavorativa degli immigrati in un distretto industriale del Nordest, resta ancora valido il suo esergo: «l’immigrato è il lavoratore non qualificato chiamato a sostituire una manodopera nazionale alla quale la scuola e la formazione professionale danno accesso ad attività più qualificate e meglio remunerate. Per la forma stessa del suo reclutamento, si tratta sempre di un proletario; si sarebbe tentati di scrivere, in questo scorcio di secolo che vede scomparire l’immagine del proletario propria della fine del XIX secolo o dell’inizio del XX, l’ultimo dei proletari». P. George, Gli uomini sulla terra. La geografia del Duemila, Roma, Nis, 1994, pp. 113-114.
- Come scrivono A. Glitz e A. Manning (The Economic Situation of First- and Second-Generation Immigrants in France, Germany, and the UK, «Cream Discussion Paper», Center for Research and Analysis of Migration, 22, 9, settembre 2009), lo scarso «successo economico può condurre all’esclusione sociale ed economica degli immigrati e dei loro figli e questo a sua volta può portare ad agitazioni sociali, con rivolte e terrorismo come sua estrema manifestazione». In Italia, con le dovute proporzioni, abbiamo già avuto qualche assaggio di tensioni sociali e di conflittualità interetnica, puntualmente segnalate dall’attento sociologo Umberto Melotti: Immigrazione, conflitti urbani e culture politiche in Europa, in Id. (a cura di), Le banlieus. Immigrazione e conflitti urbani in Europa, Roma, Meltemi 2007; Migrazioni e sicurezza. Criminalità, conflitti urbani, terrorismo, Chieti, Solfanelli 2011.
Anno di Pubblicazione
2014
Editore
Friuli Future Forum