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Libri

Il libro ricostruisce il ruolo svolto dagli opinionisti dei due più importanti quotidiani americani, The New York Times e Washington Post, in uno dei momenti più intensi della storia contemporanea: la guerra in Iraq del 2003. Come di consueto in queste circostanze, le pagine editoriali dei due giornali hanno ospitato un vivace dibattito sulla legittimità di un intervento militare fortemente voluto dall’amministrazione Bush. Veri e propri personaggi pubblici, tenuti nella massima considerazione dall’opinione pubblica e temuti nei palazzi della politica, i cosiddetti “columnist” hanno articolato le proprie posizioni schierandosi su fronti opposti. Condotto mediante il metodo sociologico dell’analisi del contenuto, l’esame degli articoli ha permesso di classificare gli autori in tre gruppi: i “falchi”, che hanno sposato la linea interventista; i “falchi riluttanti”, che hanno sostenuto la causa del governo nonostante il loro pedigree pacifista, le “colombe”, che hanno osteggiato l’uso della forza. La disanima fa emergere un tratto peculiare del giornalismo stampato statunitense: la compresenza di voci dissonanti all’interno delle pagine di uno stesso giornale e l’opportunità così offerta ai lettori di maturare, sulla base del confronto di opinioni divergenti, una posizione personale. L’analisi del caso della guerra in Iraq consente così di operare una riflessione sui fondamenti del giornalismo e di evidenziare le profonde differenze tra la realtà americana e altre, come quella italiana, dove gli organi di informazione esibiscono di norma attitudini partigiane a scapito del pluralismo. La stampa a stelle e strisce sembra dunque applicare meglio di altre il principio liberale del dibattito, inteso come apertura di uno spazio di discussione – secondo l’immagine classica del “forum” – dove ognuno ha il diritto di esprimersi ed è l’idea più convincente a prevalere.

INDICE

1. Introduzione
1.1 Il filo del dibattito
1.2 La prima guerra del Golfo e il dibattito del 1990

2. Notizie e democrazia
2.1 Note introduttive
2.2 Informare e sorvegliare
2.3 Il governo e i suoi cani da guardia
2.4 Media di opposizione?

3. L’interventismo della stampa e degli editoriali
3.1 Partecipazione e interpretazione
3.2 L’editoriale
3.3 Editoriali e rapporto media-governo

4. Opinioni in colonna: “pundit” e “columnist”
4.1 Ascesa del columnist
4.2 Il mestiere dell’opinione
4.3 Il “political pundit”
4.4 L’altro volto della colonna

5 Una piattaforma per il dibattito: la pagina “op-ed”
5.1 La promessa di Adolph Ochs
5.2 L’ideale del “forum”
5.3 Pluralismo e informazione
5.4 La tribuna libera degli“op-ed”Visualizza libro

6. Dall’11 settembre a Iraqi freedom
6.1 Breve premessa
6.2 America under attack
6.3 Brividi transatlantici dopo l’11 settembre
6.4 Verso “Iraqi Freedom”

7. I columnist di «New York Times» e «Washington Post» di fronte alla guerra
7.1 Presentazione della ricerca
7.2 Falchi, colombe e falchi riluttanti
7.3 Il fascicolo Hussein
7.4 Le Cassandre
7.5 Il nuovo Medio Oriente
7.6 La strada in salita della coesione internazionale
7.7 “America the Bully”
7.8 L’America e il mondo
7.9 Dulcis in fundo, gli “alleati”

8. Appendice: il repertorio

Bibliografia

 

Estratto da:

Falchi e colombe. Lezioni di giornalismo americano dalla guerra in Iraq, Soneria Mannelli, Rubbettino 2009.

Sull’11 settembre è stato già detto tutto. Anche chi scrive ha trovato l’occasione di esprimersi in più occasioni [Orioles, 2002, 2002a, 2003 e 2003a]. L’abbondanza delle testimonianze ci esime perciò dal compiere un’incursione ridondante. Un mero riepilogo degli elementi che hanno maggiore rilievo per noi non sarà comunque inutile. In linea con i nostri precedenti interventi, possiamo quindi trarre le fila da una delle constatazioni più note e probabilmente assai comuni alla letteratura sulla materia. Dal fatto cioè, rimarcato a caldo dal nostro Giovanni Sartori, che sulle «due Torri di Manhattan e sul Pentagono di Washington noi abbiamo visto la guerra santa in azione» [Sartori, 2001: 28]. Quel «noi» mette subito in evidenza uno dei tratti distintivi dell’emergenza che scatta quando il volo 11 della American Airlines trafigge la Torre Nord del World Trade Center: la copertura televisiva live dell’evento e la pressoché istantanea formazione di una colossale audience planetaria [Fleischner, 2002; Poli, 2001].Elaborata dalla prospettiva della sociologia dei disastri, una recente tesi di laurea ha posto questo punto nella massima evidenza. Usa distinguere tra le zone colpite dai disastri in base alle forme di coinvolgimento della popolazione, questa disciplina si vedrebbe costretta a riscontrare nell’11 settembre un caso in cui queste aree si estendono al punto di «comprendere l’intera popolazione mondiale» [Giacomini, 2003: 66].

L’enfatica affermazione di Giacomini va letta naturalmente nel contesto. Per coglierne il succo occorre rifarsi a lezioni come quella del terremoto che nel 1908 devasta le città di Messina e Reggio Calabria: una sciagura che il governo italiano apprende addirittura con oltre dodici ore di ritardo e l’opinione pubblica nazionale solo dai quotidiani del giorno successivo [Mascilli Migliorini, 1989: 17-9]. Niente a che vedere perciò con la partecipazione in tempo reale e pressoché universale che le odierne tecnologie della comunicazione rendono possibile. L’attacco all’America si pone in questo senso lungo una linea evolutiva non recente, ma i cui precedenti non avevano acquisito simili proporzioni. Per quanto concerne la diffusione della notizia vale la pena segnalare l’indagine condotta nel nostro paese dall’equipe del Dipartimento di Sociologia e Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma. Commentandone i risultati, gli autori hanno rilevato che «se quasi tutti i soggetti intervistati (94,7%) hanno saputo dei drammatici avvenimenti di New York prima delle 17:00 dell’11 settembre, ben il 74,2% del campione ha appreso la notizia entro le 16.07, in altri termini entro poco più di un’ora dal verificarsi dell’evento (che, ricordiamo, aveva avuto luogo alle ore 14.48 italiane)» [Bracciale e Martino, 2002: 70]. Un’analoga inchiesta realizzata da chi scrive, sempre entro i confini italiani, ha ottenuto risultati simili. Il 66,9% del nostro campione è venuto a conoscenza dei fatti americani entro un’ora dal loro principio, ma la quota sale al 96% allargando il lasso temporale a due ore [Orioles, 2002: 16].

Ciò che tali dati offrono va comunque ben al di là dell’acquisizione di un fenomeno di rilevanza sociologica. È semmai la loro valenza politica a contare maggiormente. Questa documentazione rappresenta infatti una misura del successo ottenuto dagli architetti del plurimo attentato: dei ex machina che hanno mostrato un’astuta quanto spregiudicata consapevolezza dei meccanismi mediatici. Come sottolinea Sergio Romano:

Vent’anni fa la maggior parte dei proprietari di un apparecchio televisivo avrebbe visto immagini “fredde”, qualche ora dopo l’impatto degli aerei e il crollo delle Torri. L’11 settembre, invece, il mondo fu spettatore “dal vivo” e provò il sentimento di disperata impotenza che coglie il testimone di un incidente o di una catastrofe […] Non basta. Fra l’impatto del primo aereo contro la prima torre, alle 8:46 del mattino, e l’impatto del secondo aereo contro la seconda torre, alle 9.02, passarono sedici minuti, vale a dire il tempo occorrente perché ogni spettatore corresse a diffondere la notizia e invitasse altri ad accendere il loro televisore. Quei sedici minuti furono i tre colpi di bastone con cui, nei teatri francesi, gli spettatori vengono invitati a prendere il loro posto. Era finito il prologo: poteva cominciare, di fronte a una sala finalmente piena, lo “spettacolo”. [Romano 2003: 41-2].

Ciò che nelle osservazioni di Romano rimane tra le righe affiora in modo esplicito nelle parole di Umberto Eco. Secondo il semiologo, la distruzione seminata in America dai seguaci di Osama bin Laden, la mastermind del blitz, non era affatto un fine in sé. Obiettivo precipuo dei terroristi era semmai catturare l’attenzione delle telecamere. Cooptate in questo diabolico disegno, queste avevano ricevuto il mandato di creare «il più grande spettacolo del mondo». La loro missione era cioè il dare forma all’«impressione visiva dell’assalto ai simboli stessi del potere occidentale», mostrando così al mondo intero che «di questo potere potevano essere violati i maggiori santuari» [Eco, 2001: 75]. Nel bilancio degli attentati il numero delle vittime o i danni strutturali potrebbero contare paradossalmente meno rispetto ad un tale fattore immateriale.«È la prima volta», puntualizza a tal proposito Ferro [2002: 51], «che la rivoluzione islamica dispone di immagini che attestino la sconfitta del principale nemico o, comunque, il grave colpo che gli è stato inferto». Raggiungendo quelle nazioni musulmane cui è primariamente rivolta la destabilizzante strategia terroristica, il messaggio di bin Laden è giunto in questo senso a destinazione. L’intero Islam, per dirla ancora con Sartori, ha potuto vedere la «guerra santa in azione».

Destati anch’essi dalla macabra contemplazione, gli osservatori occidentali si gettano presto a capofitto nella ricerca delle radici del fenomeno. Il filone sui «fondamentalismi» [Pace, 2001], sull’«Islam politico» [Fuller, 2002], sulla «jihad» [Kepel, 2002] e sulla «rabbia musulmana» [Lewis, 2001] conosce così nuova popolarità. La famosa tesi sullo «scontro delle civiltà» articolata qualche anno prima da Samuel Hungtington [2000] acquista lo spessore di una funesta profezia. Si accavallano poi a ritmi serrato nuovi interventi e pubblicazioni. Buona parte dei materiali si sofferma sull’organizzazione di Osama bin Laden, l’ormai celeberrima al Qaeda, cercando di afferrarne natura ed intenti. Alcuni parlano di un movimento «settario» di pura matrice «nichilista» [Incisa di Camerana, 2001: 12]. Altri si interrogano sullo stampo «georeligioso» del suo terrorismo [Simon, 2001]. Altri ancora vi ravvedono «il lato oscuro» [Jean, 2002: 132] o «una caricatura funesta» [Galli, 2002: 69] della globalizzazione, inquadrando bin Laden come una sorta di «direttore esecutivo» di una «multinazionale» terroristica [Fumagalli, 2001]. Con uno sguardo ai paralleli sviluppi palestinesi, si riflette naturalmente sulla letalità della cosiddetta «H-bomb»: i kamikaze [Luft, 2002]. Quanti già non lo sapevano, frattanto, appurano come lo sceicco saudita avesse iniziato già da tempo una «guerra coperta contro l’Occidente» [Reeve, 2001: 5]. Emerge allora la lunga trafila dei colpi già portati a segno negli anni ’90: Arabia Saudita, Kenya, Tanzania, Yemen [Bergen, 2001]. Affiora anche una nota inquietante: gli Stati Uniti appoggiarono indirettamente il loro nemico ai tempi in cui profuse il suo impegno nella cacciata dall’Afghanistan dell’ateo invasore sovietico. Un detrattore degli Stati Uniti, Chalmer Johnson, può così parlare di «blowback»: un «modo conciso», sottolinea puntuto l’autore, per «dire che un paese raccoglie ciò che semina» [Johnson, 2002312].

Mentre fervono questi cimenti intellettuali, gli Stati Uniti sono dominati dalle emozioni. È un’intera nazione quella che si raccoglie, a ridosso degli attentati, in un composto cordoglio [Riotta, 2001]. Indice permanente dell’eccezionalismo americano, il patriottismo mostra una subitanea fiammata [Pei, 2003]. Il popolo americano, osservano Crespi e Diamanti [2003: 5], esibisce «ancora una volta la sua grande capacità di reagire a situazioni di emergenza in modo unanime attraverso rituali collettivi volti a riaffermare con forza i valori di solidarietà democratica e di appartenenza che ormai da lungo tempo hanno caratterizzato la sua tradizione». Le testimonianze raccolte da Portelli illustrano però anche la diffusione dello sdegno, della rabbia e di altri sentimenti talvolta indicibili. Ben illustrata dalla donna afro-americana che «ha una sola parola: Nuke-em» [Portelli, 200256], prende piede la «logica immutabile della rappresaglia» [ibidem: 8]. Sulla rete delle reti si consuma un’orgia di violenza simbolica. Trafiggere in effige Osama bin Laden o scambiarsi battute sadiche sulla fine imminente del Grande Terrorista diventa rapidamente uno degli sport preferiti dagli internauti, non solo americani [Orioles, 2002a e 2003].

Il sommovimento nell’opinione pubblica si riflette comunque anche negli altri mass media. Come ha ricordato Dionne nel corso di un forum sul tema organizzato dalla The Brookings Institution [2002a], l’intero spettro dell’informazione sembra colorarsi rapidamente di un’intensa tinta «rossa, bianca e blu». Il «patriottismo dell’informazione» scandisce la programmazione dei mass media anche a molti mesi di distanza dagli attentati [Manzo, 2002]. Le benevole testimonianze di unità nazionale si accompagnano poi non di rado a manifestazioni assai più acuminate. Persino un magazine liberal come The New Yorker mostra i segni del contagio. Una sua vignetta ritrae un newyorkese che dice ad un concittadino: «Sono d’accordo che dobbiamo evitare di uccidere troppo, ma non correndo il rischio di uccidere troppo poco» [Molinari, 2004: 135]. Il 12 settembre le pagine del WP ospitano invece, a firma del politologo e columnist di punta Robert Kagan, un corsivo infuocato probabilmente rappresentativo. «Il Congresso», scrive Kagan [2001], «dovrebbe dichiarare immediatamente guerra. Non deve indicare un paese. Può dichiarare guerra contro coloro che hanno compiuto gli attacchi di ieri e contro qualsiasi nazione che possa aver dato loro appoggio. Una dichiarazione di guerra non sarebbe puro simbolismo. Sarebbe un segno di volontà e determinazione di delineare tale conflitto sino a una conclusione soddisfacente indipendentemente da quanto debba durare o da quanto sia difficile la sfida». Sei giorni dopo, il Congresso accoglie pressoché in toto questi suggerimenti. La risoluzione congiunta approvata dalle due camere autorizza il presidente a «utilizzare la forza contro gli Stati, le organizzazioni e le persone che avevano organizzato gli attacchi o che fornivano loro aiuto e li ospitavano» [De Guttry e Pagani, 2002: 24]. Il destino di Osama bin Laden sembra segnato. Così come la sorte del regime che lo aveva accolto ed appoggiato: quello messo in piedi dai sedicenti «studenti coranici» dell’Afghanistan meglio noti come «talebani» e presieduto dal fantomatico mullah Omar [Emiliani, 2002; Rashid, 2001 e 2002].

Oltre i confini dell’Unione, gli atteggiamenti americani destano le più vive preoccupazioni. Unitamente alla solidarietà verso il paese colpito e a dichiarazioni di fermezza contro il terrorismo, si diffonde il timore che il gigante americano reagisca scompostamente. L’Alleanza Atlantica si schiera allora sì seduta stante con gli Stati Uniti, invocando per la prima volta il principio di «legittima difesa». E le Nazioni Unite, dal canto loro, condannano con la massima solennità gli attentati [De Guttry e Pagani, 2002: 15-32]. Ma l’idea che l’attacco all’America rappresenti «una vera e propria dichiarazione di guerra» cui rispondere di conseguenza non suscita affatto unanime consenso [Biancheri, 2001]. Queste contraddizioni traspaiono chiaramente nel «grande dibattito» accesosi su scala globale dopo i fatti di settembre. La futura condotta degli Stati Uniti vi viene divinata con valutazioni che si divaricano rapidamente [Baranowsky, 2001; Boniface, 2001; Jervis, 2002; Smith, 2002]. Si paventa così l’avvento di una politica estera tenacemente assertiva, caratterizzata da un uso della forza unilaterale che potrebbe magari abbattersi su di un facile bersaglio iracheno da dare in pasto ad un’opinione pubblica assetata di vendetta. Ma si fa anche strada l’auspicio che l’America riscopra le virtù del multilateralismo, ravvedendovi la migliore strategia per fronteggiare la nuova minaccia attraverso opzioni non militari. È una strada che, si sostiene, avrebbe il vantaggio di non acuire quell’ostilità musulmana verso il «Grande Satana» d’oltremare abilmente sfruttato da bin Laden. Indipendentemente dalle peculiarità di ogni pronostico, la constatazione di Fukuyama accomuna tutti: la tendenza isolazionista con cui si era presentata al suo esordio l’amministrazione Bush e con cui aveva «flirtato» talvolta anche il governo precedente è decisamente «off the table» [Fukuyama, 2001]. Con il fiato sospeso, il mondo attende dunque di capire se ed in che modo gli Stati Uniti si lasceranno alle spalle quell’«esercizio riluttante della potenza» che ne aveva caratterizzato il recente passato e se «getter[anno] tutto nella difesa del loro territorio e, al tempo stesso, nella difesa di tutto ciò che sta loro a cuore in tutte le parti del mondo» [Di Nolfo, 2002: 384-5].

Le prime mosse degli Stati Uniti appaiono comunque refrattarie a farsi rinchiudere nella gabbia di analisi astratte. Ognuno può riscontrarvi i segnali che si attagliano meglio al proprio scenario. Per le parole d’ordine con cui viene annunciata, la «guerra al terrorismo» suscita qualche perplessità. L’infelice «o con noi o contro di noi» e altri retorici passi falsi del presidente George W. Bush diventano facile bersaglio di una critica, specialmente europea, che già nutre riserve verso un uomo reputato poco più che un «cowboy male informato» [Gordon, 2003: 70]. Il rischio nel dipingere a tinte forti il nemico islamico, si osserva, è di fare il gioco di bin Laden [Boniface, 2001; Schlesinger, 2001]. Ma il leader americano alterna la risolutezza a dichiarazioni concilianti verso il mondo musulmano. La diplomazia della sua amministrazione ordisce poi la trama di una coalizione internazionale ancor più imponente di quella tessuta dall’amministrazione guidata dal padre di Bush per la guerra del Golfo.

Quando i primi missili colpiscono l’Afghanistan, la sera del 7 ottobre, il mondo appare compatto al fianco degli Stati Uniti. La Russia del presidente Vladimir Putin contribuisce dietro le quinte agli sforzi strategici degli Stati Uniti, mentre persino la Cina aveva offerto cenni di apertura. Dal canto suo, il Vecchio Continente fa mostra di apprezzare l’approccio «attento» e «proporzionato» della controparte atlantica [Gordon, 2003: 70]. Le trombe pacifiste denunciano lo stesso l’operazione «Enduring Freedom», che non si presenta però affatto con i consueti crismi di Marte. L’offensiva viene infatti concepita in sintonia con i dettami della «rivoluzione degli affari militari» cara al segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che ne canterà poi le virtù in un saggio pubblicato dalla rivista Foreign Affairs [Rumsfeld, 2002]. All’«asimmetria» dell’assalto terrorista viene fatto corrispondere perciò un conflitto atipico in puro stile post-Clausewitz [Luttwak, 2002; Liang e Xiansui, 2001]. Nessun esercito invasore si raduna nel cuore dell’Asia Centrale. Lasciando i combattimenti alla resistenza interna dell’«Alleanza del Nord», gli Stati Uniti possono fare sfoggio del meglio della propria tecnologia e sfruttare l’impeto letale dell’air power [Bowden, 2002; Cordesman 2002]. Le uniche impronte a stelle e strisce lasciate sul suolo afghano sono quelle dell’invisibile «quinta forza armata» statunitense, i corpi speciali della CIA [Romano, 2003: 60], e dei commando inquadrati nelle special operation forces [Biddle, 2003].

L’immancabile vittoria finale arriva nell’arco di poche settimane. Il tripudio dei cittadini di Kabul, liberata «senza un combattimento» il 13 novembre [ibidem: 33], soffoca sul nascere i paragoni con il «pantano» vietnamita avanzati dai soliti noti. Il successo sul campo, tuttavia, viene incrinato dalla mancata cattura di Osama bin Laden. Sfuggito alla grande caccia, il capo di al Qaeda si trasforma in un «Signore delle Tenebre» squarciate da poche ma accorte apparizioni televisive o dichiarazioni via internet. La strategia del terrore di bin Laden prosegue così alimentandosi di un «messianismo mediatico» [Ramonet, 2001] che troverà in Al Jazeera, la tv via satellite del Qatar presto ribattezzata come «la CNN della mezzaluna»una delle sue sedi naturali [Bettiza, 2002]. È una dimensione parallela del conflitto che permette, se vogliamo, qualche parallelo con la «guerra psicologica» che fu combattuta via onde radio ai tempi della seconda guerra mondiale e che sarebbe poi proseguita nella successiva era del confronto tra i due blocchi americano e sovietico [Heil, 2003; Jeanneney, 1996: 151-160; Mattelart, 1994: 125 e sg.].

Anno di Pubblicazione

2009

Editore

Rubbettino

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