“Cestil ai bedi”, “smiccia i gagi”, “tiragli un grebano”, “smucca”: quanti a Udine conoscono il significato e soprattutto l’origine di queste espressioni? Quelle parole, ostiche e dalla semantica oscura, caratterizzavano il gergo dei cosiddetti “riccardini”, ossia gli abitanti giovani del quartiere di via Riccardo Di Giusto. Quei ragazzi, espressione della prima generazione delle famiglie che a partire dagli anni Settanta si erano insediate in quell’area, svilupparono una subcultura tutta propria che ne rispecchiava la carica di antagonismo rispetto alla società circostante che li aveva relegati ai margini. Concepito per non essere compresi all’esterno e formato da parole attinte dal friulano, dal veneto udinese e dalla lingua dei rom e dei sinti, quello slang – di cui su internet esiste addirittura un dizionario – rispecchia il difficile vissuto di una generazione trasferita in un ‘non luogo’ che sarebbe diventato noto come il Bronx. Ma chi erano davvero i riccardini e quali ne erano le tipiche forme di socializzazione? Tiziano Bravi è oggi un artista sulla soglia dei sessant’anni, ma negli anni Ottanta è stato uno dei protagonisti di quella vita spericolata. Quando gli chiediamo chi fossero e cosa facessero i riccardini, egli risponde che “era la nostra compagnia, anzi la nostra gang. Quando eravamo ‘muletti’ – spiega Bravi. ci ritrovavamo sotto la ‘diga’ (il palazzo progettato da Gino Valle). Per me era come casa mia. Si camminava su e giù, e negli spazi verdi si giocava a calcio. E così si facevano le quattro del mattino”. Alla richiesta di essere più preciso nel fornirci un identikit, Tiziano indica una caratteristica chiave: “quella di essere la gente più tosta di Udine. Eravamo gente in gamba: sempre insieme, spalla a spalla, ognuno con le sue problematiche in termini di vita, ma ragazzi di valore che si aiutavano l’un con l’altro. Forse era proprio il fatto di avere problemi a creare l’unione”. I riccardini, ricordiamo a Bravi, non erano accompagnati da una reputazione positiva. “All’epoca – conferma – solo a parlare del quartiere di via Di Giusto la gente prendeva paura. Questo non solo perché aveva la fama di essere un quartiere degradato, ma anche perché noi eravamo, come dire, un po’ esaltati. Eravamo sicuramente famosi per le risse: ne abbiamo fatto tantissime”. Le attitudini dei riccardini si manifestavano anche sotto la forma, per usare le parole di Bravi, di un “conflitto totale” con le forze dell’ordine. Una situazione che galvanizzava il gruppo ma il cui rovescio della medaglia era rappresentato dall’elevato numero di giovani rimasti impigliati nelle maglie della giustizia. Ascoltando la testimonianza di un sopravvissuto come Bravi ci si pongono delle domande su come tutto ciò sia potuto succedere, su come cioè in quel quartiere si siano concentrati fenomeni di devianza così plateali. Per trovare una risposta dobbiamo risalire alle origini, guardando a come e perché sia nata la banlieu udinese. Si devono cioè decifrare gli obiettivi dei grandi piani di edilizia popolare attuati a partire dagli anni Settanta. Come spiega l’architetto Roberto Cocchi, “ci sono due componenti che caratterizzano le politiche perseguite attraverso leggi di edilizia popolare e Enti come gli IACP. Una era la volontà di operare una sorta di gentrificazione del centro urbano, favorendo lo spostamento della popolazione a basso reddito verso le periferie. La seconda caratteristica rimanda all’intenzione, sicuramente più positiva, di fornire ai ceti popolari delle abitazioni che avessero dei confort più moderni rispetto alle vecchie case della città”. Cocchi qui ricorda che furono mobilitati progettisti con capacità e sensibilità molto particolari, tra cui lo stesso Gino Valle. Ed è proprio guardando alla ‘diga’, pensata per ospitare oltre cento nuclei familiari, che emerge quello che Cocchi denuncia come “uno dei limiti fondamentali di questa operazione, quello cioè di andare a costruire degli edifici di grandissime dimensioni, dei monoblocco, che oggi giustamente appaiono grotteschi ma che all’epoca i progettisti tentarono di rappresentare come ‘macchina felice dell’abitare’. Il problema però – rileva l’architetto – è che tutto avvenne senza restituire la presenza della strada come funzione sociale non solo di transito ma anche di aggregazione. Anche per come sono collocati, a spina, non propongono alcuna relazione tra il risiedere e la capacità sociale del luogo”. Anche il sociologo Bruno Tellia, già docente nell’Ateneo friulano, rintraccia un vizio di origine nel disegno di quartieri che nel nostro Paese e in Europa sono molto diffusi. Alla base delle politiche abitative del tempo secondo Tellia c’era “una cultura politica di tipo pianificatorio di ispirazione marxista che godeva di molto credito. Sono gli stessi anni in cui viene adottato il piano urbanistico regionale. Era un disegno improntato ad una logica di sviluppo innaturale delle città attraverso l‘edificazione di grandi lotti decentrati rispetto al perimetro urbano. La scelta – rimarca il sociologo – di privilegiare grandi insediamenti con un’edilizia per di più povera aveva l’obiettivo di omogeneizzare la popolazione lì residente trasferendola di peso in luoghi senza storia e privi dei tradizionali luoghi di socializzazione come la piazza. Ma la socializzazione – conclude Tellia – non si crea per decreto”. Non c’è nulla da stupirsi se in quel contesto sia sorta una subcultura antagonista. È addirittura ovvio, sottolinea Tellia, che in aree così caratterizzate “i giovani abbiano sviluppato forme di identificazione per contrapposizione. Lo facevano per rafforzarsi e per riconoscersi a vicenda. In quest’ottica chi veniva fermato dalla polizia o finiva in carcere diventava un eroe agli occhi del gruppo”. Anche secondo un altro sociologo come Maurizio Ambrosini, docente all’Università di Milano, non c’è nulla di cui sorprendersi. “Fenomeni di questo genere – sottolinea – ci sono sempre stati, si tratta di elementi tipici delle società urbane. Le aggregazioni di strada, in particolare, sono un tratto caratteristico dei quartieri popolari, dove sono frequenti le risse tra gruppi rivali. Un riferimento letterario che si può citare sono le vicende dei Ragazzi della via Pal”. Con i loro rituali, quei giovani insomma esprimevano, continua il sociologo, “una netta distanza dalle istituzioni della società. Si tratta di un elemento saliente di queste subculture marginali e oppositive”. Ma questa tutto sommato è acqua passata: della turbolenza di quel tempo rimane solo la memoria coltivata dai ‘reduci’ come Bravi, che ha addirittura fatto realizzare delle magliette con l’espressione riccardina per antonomasia, “cestil”, andate subito a ruba. Anche su YouTube c’è chi ha immesso video con gustosi doppiaggi in riccardino, che fanno rivivere il clima del tempo. Come ha evidenziato una tesi di laurea discussa all’Università Ca’ Foscari di Venezia da Giulia Battaino, il gergo dei riccardini “non ha simili nella città. Parlare un codice non compreso dagli altri permetteva non solo di ‘non essere sgamati’ ma anche di aumentare il senso di appartenenza a un gruppo, di possedere qualcosa di unico e diverso dagli altri, di fare parte di qualcosa, che spesso sostituiva la famiglia”. Per l’ex gioventù bruciata del Bronx, in definitiva, resta la soddisfazione di avere lasciato una traccia simbolica che resiste al passare del tempo.