Pur senza i margini di vantaggio che gli attribuivano i sondaggi, Joe Biden riesce a diventare il 46.mo presidente degli Stati Uniti. Il risultato sarebbe stato ben diverso se Donald Trump, uomo dalle mille vite, non avesse incassato dalle urne più consensi del previsto al punto da essere premiato, con 70 milioni di voti, come secondo candidato più votato nella storia degli Usa. Il punto è che Biden, essendosene assicurati 4 milioni in più, è di fatto il candidato più votato in assoluto, cosa che conferisce a lui e alla sua vice Kamala Harris il pieno mandato a governare il Paese. Riuscirà allora il nuovo presidente a mantenere le sue promesse elettorali? Qui purtroppo il neoeletto Biden dovrà pagare un prezzo al Senato, che secondo le proiezioni attuali sembra destinato a rimanere in mani repubblicane. Questo significa che in tutte le nomine soggette a ratifica senatoriale, compresi ministri, membri del gabinetto e ambasciatori, il neopresidente dovrà negoziare un compromesso con la controparte repubblicana. Esiste dunque un forte rischio che le misure più ambiziose del programma di Biden possano essere ridimensionate di non poco, a partire da quel Green New Deal che in verità non convinceva del tutto neanche lui. Anche la promessa di introdurre un embrione di sanità pubblica, in ideale continuità con le politiche del suo ex numero uno Obama, sembra avere poche possibilità di piena realizzazione. Se c’è un ambito invece dove Biden può segnare davvero un cambio di passo rispetto al quadriennio trumpiano è la politica estera. Il fiume di congratulazioni pervenutegli dai leader mondiali a pochi minuti dalla notizia della sua vittoria denota l’attesa di interagire finalmente con un interlocutore affidabile e non incline alle rotture drastiche che hanno abbondato in questi quattro anni. Ne sa bene qualcosa la Germania di Angela Merkel, destinataria di più di una saetta da parte del tycoon, ma anche il vicino di casa Trudeau, premier del Canada, ancora scottato dalla fuga sdegnata di Trump dal G7 tenutosi nel suo Paese. Archiviata ora la stagione dell’America first, il nuovo presidente può accingersi a far rivivere la fiamma del multilateralismo e della cooperazione tra Stati, che sono stati i due principi più frequentemente calpestati dal suo predecessore. Ma non tutta l’eredità di Donald Trump in politica estera è negativa. Biden potrà mettersi sulla sua scia proseguendo ad esempio nell’opera di pacificazione tra Israele e il mondo arabo, un campo innovato dagli “accordi di Abramo” negoziati dal team del presidente uscente. Potrà poi riannodare i fili con il dittatore nordcoreano Kim Jong un; il depotenziamento delle sue minacce e il suo coinvolgimento in una tela diplomatica, che ha compreso due vertici di alto profilo, è stata la vera novità della gestione trumpiana. Quanto alla Cina è convinzione diffusa che non vi sarà alcun idillio ma che al contrario proseguirà un confronto serrato seppur privo dei toni enfatici e ultimativi dell’amministrazione Trump. L’America insomma volta pagina e, seppur senza cambiamenti vistosi, torna a essere quel campione del mondo libero cui alleati e partner possono guardare con fiducia.