Il premier iracheno al Abadi ieri ha proclamato la vittoria sullo Stato islamico. Un gesto comprensibile ma probabilmente prematuro. Se la sconfitta di Daesh a Mosul è nei fatti, il gruppo jihadista rappresenta ancora una minaccia per il fragile Stato iracheno. Controlla infatti ancora alcune porzioni del territorio nazionale, ma soprattutto si sta senz’altro riorganizzando per minare con attacchi a sorpresa, mordi e fuggi, la stabilità del Paese.
Ci sono poi altri buoni motivi per ritenere prematuro l’annuncio di Abadi. L’Iraq ha dinnanzi a sé una sfida immane, ossia la ricostruzione e la pacificazione di una società sin troppo balcanizzata. Il crinale che separa sunniti e sciiti è ancora ampio, e i secondi hanno dato più volte mostra di volersi vendicare sui primi per aver appoggiato i tagliagole. Ciò potrebbe creare le condizioni perché i sunniti tornino ad appoggiare un’insurrezione jihadista condotta da ciò che rimane dello Stato islamico. Mitigare le ragioni dell’ostilità reciproca tra sunniti e sciiti è una priorità per le istituzioni nazionali, che in passato hanno commesso il grave errore di marginalizzare le comunità sunnite, creando le condizioni per l’appoggio di queste ultime alla causa jihadista. La prevalenza degli sciiti nelle istituzioni deve dunque senz’altro essere compensata da uno sforzo per reintegrare i sunniti, nell’ambito di uno Stato federale che deleghi alle regioni il maggior potere possibile. Ma questo indispensabile sviluppo è minato da due fattori: il revanscismo sciita e l’ingerenza iraniana, due elementi che rischiano di compromettere sin dal principio la necessaria ricomposizione delle forze etnosociali del paese.
Un altro elemento che fa ritenere azzardato l’annuncio del premier è il perdurare della guerra civile nella confinante Siria. Sebbene anche qui siano tangibili i successi delle forze che si oppongono allo Stato islamico, è quanto mai lontana la prospettiva di una pace sostenibile sostenibile duratura. Non è infatti in vista un accordo tra ribelli e governativi, e tra i rispettivi sponsor internazionali. Grazie al sostegno russo e iraniano, Assad è ora saldamente al potere, e questa realtà non può essere digerito dagli insorti sunniti che nel presidente siriano vedono solo l’oppressore. Inoltre, lo Stato islamico è ancora lungi dall’essere sconfitto. Se le Forze democratiche siriane sostenute dagli americani hanno cominciato la settimana scorsa l’assalto finale alla capitale di Daesh, Raqqa, i jihadisti si sono già riposizionati più ad est, da dove continueranno a minacciare la Siria, la Giordania e, ovviamente, l’Iraq.
Questi ed altri motivi inducono a giudicare oltremodo prematura la proclamazione della sconfitta dello Stato islamico. Che continuerà ad incombere sulle sorti di Iraq e Siria per lungo tempo, soprattutto se si materializzerà lo scenario intravisto da molti analisti: il riavvicinamento tra Is ed al-Qaida.