Che cosa si dice negli Stati Uniti sul mercato del petrolio. Numeri, commenti e il report del Cer
Siglato lo scorso 12 aprile ed entrato in vigore il successivo 1 maggio, l’accordo cosiddetto “OPEC plus plus” ha già dispiegato i suoi effetti in termini di tagli concordati alla produzione globale di petrolio, e una pubblicazione fresca di stampa – la seconda edizione appena pubblicata del rapporto “Geopolitica dell’Energia” curato dal Centro Europa Ricerche – consente di cogliere linee di tendenza e problemi all’orizzonte.
In base ai termini dell’intesa, ricorda il rapporto curato dall’analista Demostenes Floros, i membri del cartello OPEC plus hanno concordato di ridurre l’output sino al 30 giugno 2020 di circa il 9,7% rispetto ai livello pre crisi. L’obiettivo, nella fattispecie, era togliere dal mercato quasi dieci milioni di b/g rispetto ad una produzione globale che nel gennaio 2020 lievitava intorno ai 45 milioni di b/g.
Oltre ai colossi russo e saudita, che risultano aver già tagliato le rispettive produzioni di due milioni di b/g portandole a 8.750.000 b/g, all’accordo hanno aderito anche alcuni produttori esterni al cartello come Norvegia, Canada, Brasile e soprattutto USA, a cui è stato chiesto di effettuare un taglio di almeno 5 milioni di b/g.
Per volontà del presidente Donald Trump, che molto si è adoperato perché l’accordo si concretizzasse, gli Usa si sono fatti carico di una parte consistente di questo taglio pari a ben due milioni di b/g (anche se, ha precisato il capo della Casa Bianca, “in base ai prezzi”).
Ebbene, stando ai calcoli di S&P Global Platts Analytics, il taglio complessivo operato di paesi esterni alla cerchia dell’OPEC plus ha già raggiunto i 4.100.000 b/g. Di questi, la parte del leone spetta come previsto agli Usa, il cui output secondo l’Energy Information Administration, aveva toccato la settimana terminata l’8 maggio scorso 11.600.000 b/g, con un calo di ben 1.500.000 b/g rispetto ai livelli record di produzione (13.100.000 b/g) raggiunti il 13 marzo di quest’anno.
Le statistiche divulgate da Baker Hughes offrono un indicatore eloquente dell’attuale situazione del settore energetico in America: all’8 maggio 2020 risultavano essere attive in tutto il territorio Usa 374 trivelle, di cui 292 petrolifere, 80 gasiere e 2 miste, con un calo complessivo di ben 228 rispetto a quelle rilevate appena un mese prima. Come evidenzia il rapporto, da quando Baker Hughes fornisce statistiche sulle perforazioni, cioè dal 1940, che il numero di trivelle attive in America non è mai stato così basso.
Negli States, come conseguenza, dominano ansia ed incertezze. E a nulla è valsa la battaglia del commissario alle Ferrovie texane, Ryan Sitton, per superare i vincoli delle leggi antitrust e far aderire i produttori del Texas all’accordo OPEC plus plus al fine di limitare intenzionalmente la produzione. L’appoggio che Sitton ha ottenuto da numerosi operatori di piccole e medie dimensioni come Parsley Energy e Pioneer Natural Resources nulla ha potuto di fronte alla strenua opposizione del potente American Petroleum Institute (API), specialmente perché spalleggiata da majors quali ExxonMobil, ConocoPhillips e Chevron.
All’orizzonte, pertanto, Sitton vede accumularsi nubi nere e compatte. “Quando la domanda tornerà a 90-95 milioni di barili al giorno”, ha dichiarato il commissario a Bloomberg, “il paese con la maggior perdita di produzione di petrolio saranno assolutamente gli Stati Uniti”.
La cupa profezia di Sitton secondo cui gli Usa saranno i “grandi perdenti nel settore petrolifero globale” deve ora fare i conti con la contromossa trumpiana volta a consentire alle società dell’Oil & Gas di accedere al pacchetto di aiuti varato dal Congresso la cui liquidità è gestita dalla Fed.
A parte tuttavia alcuni punti ancora oscuri – “non è ancora chiaro”, sottolinea il rapporto del Cer, “se un eventuale finanziamento della Fed comporti lo scambio di quote azionarie con diritto di voto al fine di bloccare la produzione” – non tutti negli Usa ritengono che l’intervento della Fed possa rivelarsi, se non utile, decisivo sulle sorti di un’industria già condannata da altri fattori in gioco.
Sono in molti infatti a pensarla come Mike Cantrell, Ceo di Oklahoma Energy Producers Alliance e Postwood Energy, per il quale “quest’anno la metà di quelle aziende sarebbe [comunque] fallita” anche senza l’intervento devastante del fattore Covid-19, dal momento che il loro vero problema è il modello di business.
È un problema che ha spinto Tom Sanzillo, direttore finanziario dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis, ad affermare che nemmeno se tutti i miliardi di dollari a disposizione della Fed fossero riversati nel comparto Oil & Gas si riuscirebbe a scioglierne il problema di solvibilità a lungo termine.
Chi è destinato a pagare il prezzo più alto sul dossier petrolio sono i frackers, che non dispongono – per ragioni squisitamente geologiche – dell’opzione di chiudere i pozzi. È una strada impraticabile per il motivo illustrato da David Messler: una volta chiuso un pozzo, potrebbe risultare definitivamente compromessa la possibilità di rimetterlo in moto o, se non altro, di farlo tornare ai livelli produttivi precedenti.
Così, quando Messler stima che “(l)’effetto netto sarà probabilmente meno petrolio e gas rispetto a prima”, non fa altro che confermare le previsioni di Standard Chartered, secondo la quale entro la fine dell’anno il tight oil Usa crollerà di 2.740.000 b/g.