Il Covid-19 darà una spinta al telelavoro? Spunti dagli Usa
In questo momento molto particolare lo hanno ripetuto un po’ tutti, in America e non solo: oltre ad essere una calamità, l’emergenza Covid-19 serve anche come test per le nostre società, ovvero – in altre parole – rappresenta un utile scossone per mettere alla prova le nostre capacità e la nostra resilienza.
È un concetto che Axios, nella sua newsletter di sabato, ha applicato ad un campo – il telelavoro – cui proprio il virus venuto da Wuhan potrebbe dare un’accelerazione che riesca, finalmente, a trasformarlo da situazione di nicchia a modalità diffusa se non generalizzata.
Secondo Prithwiraj Choudhury, docente alla Harvard Business School, il Covid-19 potrebbe anzi configurarsi per il telelavoro come il classic “game-changer”: il fattore X, cioè, che mette in moto una rivoluzione lungamente incubata ma in attesa, per l’appunto, di fare il passo decisivo.
Sono numerose e quanto mai illustri le aziende a stelle e strisce – a partire quelle del GAFA (Google, Apple, Facebook; Amazon), passando per le redazioni di quotidiani di punta come NYT e Washington Post – che hanno chiesto ai dipendenti di lavorare da casa.
Identiche direttive, frattanto, hanno raggiunto negli Usa docenti e studenti di atenei prestigiosi come Yale, Harvard, Princeton, M.I.T e N.Y.U, dove dopo due decenni di riflessioni teoriche e progetti pilota il Covid-19 ha trasformato in realtà il famoso e-learning.
Attenzione però, avverte Axios: se di rivoluzione si può parlare, siamo di fronte solo ai primi vagiti. Sono infatti appena il 4% i lavoratori Usa che esercitano esclusivamente in casa la propria professione, mentre l’e-learning coinvolge – secondo un recente studio del Dipartimento dell’Educazione – meno di uno studente su sei.
La strada è lunga, insomma, ed è pure in salita. A remare contro, infatti, ci penseranno tutti i manager e docenti per i quali l’interazione faccia a faccia è semplicemente insostituibile. Gli stessi, cioè, che resisteranno con tutte le forze all’eliminazione di uffici o classi che hanno un comprovato ruolo nel favorire la creatività e cementare i team.
Ma prima di pensare che sia solo un problema culturale, fareste meglio a prestare attenzione alle attività produttive e ai mestieri che non possono sic et simpliciter diventare virtuali.
Per agevolare la nostra comprensione, Axios ha pubblicato un articolo a firma Ina Fried che fornisce alcuni esempi di tech jobs che non possono essere svolti da casa: si va da chi realizza i chip ai “content moderators”, agli “App Store reviewers” fino ai “data centers operators”.
E se la regola vale per l’hi tech, figurarsi per i settori tradizionali, specialmente del terziario, popolato da eserciti di cuochi, donne delle pulizie e fattorini.
Non è tutto. Oltre ai vantaggi del telelavoro, bisogna considerare anche l’altro versante della medaglia: quello rappresentato dalla percentuale non infima di telelavoratori che, come ha dimostrato una ricerca pubblicata sulla Harvard Business Review, tendono ad essere meno leali verso l’azienda e a licenziarsi più facilmente di quanto accada tra i lavoratori tradizionali.
E se c’è qualcuno – l’Università di Stanford, nella fattispecie – che ha dimostrato che il telelavoro aumenta la produttività del 13%, c’è chi è pronto a controargomentare elencando i problemi connaturati al telelavoro che vanno dai bambini che frignano, ai cani che vogliono giocare ai cumuli di spazzatura da svuotare.
Per non parlare dell’intrinseca difficoltà, per i datori di lavoro, di sapere se il proprio dipendente sia o no a casa a fare gli interessi dell’azienda.
Molti ostacoli si intravedono dunque all’orizzonte del telelavoro. E chissà che il senso di urgenza posto da un virus invisibile e mortale non aguzzi l’ingegno e consenta di trovare le soluzioni ai problemi che rendono ancora lo smart working un fatto d’élite.
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La Fed impugna il bazooka contro il Covid-19
Dopo il piano di emergenza sul Covid-19 varato dall’amministrazione Trump e il pacchetto votato sabato dalla Camera che dovrebbe essere approvato anche dal Senato questa settimana, rimaneva ancora uno strumento, il più formidabile di tutti, da mettere in campo per scongiurare il peggio: il bazooka.
Ed è proprio quello che ieri pomeriggio ha impugnato Jerome Powell, n. 1 della Federal Reserve, per annunciare la notizia più attesa dalle parti della Casa Bianca e non solo: un insieme di misure straordinarie che comprendono quel taglio dei tassi a zero che Donald Trump aveva più volte preteso in passato da Powell spingendosi addirittura a chiederne irritualmente la testa.
L’azzeramento dei tassi di interesse “fino a quando”, parola di Powell, non vi è la “fiducia che l’economia abbia assorbito gli eventi recenti” non è però l’unica mossa fatta ieri dalla Fed.
Nella riunione convocata con qualche giorno di anticipo rispetto al calendario – a sottolineare, rileva Politico, il senso di urgenza che dominava nel quartier generale della banca centrale– è stato deciso di muoversi sulla scia di quanto fatto durante la Grande Crisi del 2008 con il duplice obiettivo di abbassare il costo del debito e sostenere il mercato immobiliare.
Si è dunque deciso un acquisto straordinario di bond per un valore pari ad almeno 500 miliardi di dollari e compiuto un’analoga operazione sui famosi “mortgage-backed securities” per almeno 200 miliardi.
“Il costo del credito”, ha spiegato Powell presentando le misure, “è cresciuto per tutti fuorché per i debitori più forti, e le Borse nel mondo sono scese molto”. Di qui la scelta di tagliare i tassi e puntellare un mercato dei bond che, ha aggiunto il capo della Fed, “svolge un ruolo importante nel permettere a famiglie e imprese di avere degli utili e gestire i loro rischi”.
Un mercato che infatti, quando finisce sotto stress come in questa circostanza, può trasmettere questo stesso stress “all’intero sistema finanziario e all’economia”, da cui la necessità di intervenire tempestivamente per scongiurare il peggio.
Ma le mosse anti-Covid prese ieri dalla Fed non finiscono qui. Per assicurare la liquidità necessaria ad imprese e famiglie, l’istituto ha chiesto alle banche di ricorrere ai rispettivi cash buffer. Le banche sono inoltre incoraggiate a usare allo stesso scopo la cosiddetta “emergency lending facility” nota anche come “discount window”.
“La Federal Reserve”, è stata la spiegazione di Powell, “sostiene (le banche) che sceglieranno di usare i loro capitali e buffer di liquidità per” erogare prestiti e compiere altre “azioni di supporto” dei propri clienti “in modo sicuro”.
E giacché la Fed gestisce una valuta il cui peso nel sistema economico e finanziario globale non ha eguali ecco che Powell ha annunciato di essersi coordinato con le principali banche centrali – dalla Bce, alla Bank of Canada, Bank of England, Bank of Japan fino alla Swiss National Bank – per rassicurarle sulla possibilità, anche nella presente situazione eccezionale, di continuare a convertire le proprie valute in dollari.
La Fed, insomma, ha preso il toro per le corna e si accinge ad ammazzare il virus con gli stessi strumenti che impedirono alla Grande Crisi di uccidere il paziente economia mondiale.
È anche per questo che un raggio Donald Trump ieri ha deciso di ringraziare l’uomo di cui ha più volte chiesto la sostituzione.
“Mi rende molto felice, e voglio congratularmi con la Federal Reserve”, ha dichiarato ieri il presidente ai reporter. “Sono davvero ottime notizie, notizie davvero eccezionali per il nostro paese. Penso che la gente nei mercati dovrebbe essere davvero eccitata”.
Peccato che la festa del tycoon sia stata guastata da quell’impenitente di Powell, che pur imboccando il bazooka ha deciso di non pigiare il tasto che tanto piace al capo della Casa Bianca: quello che porta i tassi in territorio negativo.
“Non crediamo che la politica dei tassi negativi sia una risposta appropriata qui negli Usa”, ha chiuso la questione Powell.