La visita del primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis a Gerusalemme dal collega Benjamin Netanyahu e il report dell’Israeli Institute for Regional Foreign Policies sulle traversie del gasdotto EastMed
Per la sua prima visita all’estero dopo l’esplosione della pandemia, il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha scelto di fare tappa a Gerusalemme dal collega Benjamin Netanyahu.
Arrivato in Terra Santa con una folta delegazione di ministri, Miktsotakis aveva una fitta agenda di colloqui con la sua controparte. Come ha annunciato il ministero degli Esteri israeliano alla vigilia degli incontri, essi sarebbero stati incentrati sul “piano di pace del presidente Trump” sulla Palestina, sulla “stabilità in Medio Oriente con un enfasi su Iran e Libano” e, dulcis in fundo, sul “progetto EastMed”.
Su quest’ultimo punto tuttavia Gabriel Mitchell, Policy Fellow all’Israeli Institute for Regional Foreign Policies, è convinto che le conversazioni tra Mitsotakis e Netanyahu siano state alquanto asciutte.
Nel lungo saggio dedicato a Eastmed scritto per la rivista “War on the Rocks” proprio in occasione del tour israeliano del premier greco, Mitchell ha ricapitolato tutti i motivi per cui questo progetto faraonico su cui avevano appuntato le proprie speranze vari paesi del Mediterraneo oltre a Israele e Grecia sia di fatto su un binario morto.
Il principale fattore a decretare la morte cerebrale di EastMed è stato secondo Mitchell proprio il Covid-19. L’impatto della pandemia sul mercato dell’energia è stato talmente violento, e i danni procurati ai paesi esportatori talmente ingenti, da costringere i promotori del progetto a un repentino ripensamento.
Ma più del Covid-19, a far mordere il freno agli artefici di EastMed sono i costi stimati del progetto, lievitati sino a 7 miliardi: tutto ciò per Mitchell ha sollevato forti dubbi sulla profittabilità del progetto stesso e in particolare sulla possibilità che il gas israeliano e cipriota arrivi in territorio europeo a un prezzo realmente competitivo.
Sono tanti e tali i dubbi in Europa che Mitchell si dice convinto che uno dei principali sponsor del progetto, ossia la Commissione Europea, stia ormai per tirare i remi in barca.
Se EastMed non si farà, chi piangerà più amaro secondo Mitchell sarà Israele. Lo Stato ebraico aveva riposto molte speranze dopo la scoperta dei maxi giacimenti Tamar e Leviathan di diventare un potente e ricco esportatore.
Animato da questa convinzione, il governo Netanyahu negli anni scorsi ha condotto una vera e propria maratona diplomatica nel Mediterraneo per formare un consenso intorno al progetto, stringendo accordi con paesi come Grecia e Cipro ma anche Giordania e Israele.
E il suo ministro dell’energia Yuval Steinitz, sottolinea Mitchell, ha speso gli ultimi cinque anni a magnificare il progetto.
Appare in questo senso quanto mai significativo che, dopo la recente formazione del nuovo gabinetto Netanyahu, il riconfermato Steinitz non abbia più pronunciato la parola EastMed e abbia invece tessuto le lodi dei progetti del suo governo sull’energia solare.
Oltre a Israele, chi non può essere contento degli ultimi sviluppi sono Grecia e Cipro.
Nella loro qualità di partner essenziali del progetto, saranno proprio Grecia e Cipro gli ultimi ad innalzare bandiera bianca, come ha dimostrato la cerimonia solenne dello scorso gennaio dedicata a EastMed a cui hanno preso parte i rispettivi primi ministri più il collega Netanyahu.
Ma i problemi in quelle acque si stanno moltiplicando da quando la Turchia ha cominciato a mettere i bastoni tra le ruote con svariate rivendicazioni territoriali – culminate con la provocatoria delimitazione di una propria ZEE fatta con il governo di Tripoli – e una diplomazia delle cannoniere che ha messo in allarme l’Europa e la Nato.
Tentativi di riportare Ankara a più miti consigli non mancano, ma è un fatto che i giacimenti di Cipro non sono ancora operativi e a maggio Eni, Total e ExxonMobil hanno annunciato di sospendere per un anno le attività di trivellazione nelle acque cipriote.
Nell’elenco dei problemi di EastMed Mitchell ci mette anche i dissapori tra Giordania ed Egitto, legati nel progetto da un accordo che prevede la fornitura di 45 miliardi di metri cubi ad Amman per 15 anni per un costo di 10 miliardi di dollari.
Qui i problemi sono sostanzialmente due. Quelli politici, con il popolo giordano restio a stringere accordi con uno Stato come quello ebraico con i quali esiste com’è noto un’antica ruggine. Ma il vero nodo è quello economico, ossia dei costi, che vedono il governo giordano alla ricerca di alternative a EastMed – leggi: LNG – che consentano un risparmio nella bolletta energetica nazionale.
La rassegna di Mitchell non poteva terminare senza menzionare l’ultimo sconfitto dal tramonto di EastMed: l’Egitto. Stiamo parlando di un paese che, dopo le ingenti scoperte offshore degli anni scorsi, si era convinto di poter diventare un importante hub regionale, e coltivava l’ambizione di poter trasformare in LNG il gas israeliano e cipriota nei suoi impianti di Idku e Damietta e da lì esportarlo in Europa.
Svaniti questi sogni, adesso Il Cairo ha i suoi problemi a trovare acquirenti della propria energia, e si è trovato persino costretto a tagliare la produzione nel suo maxigiacimento di Zohr.
Arrivato al termine di questa rassegna, Mitchell non può che offrire la più sobria delle conclusioni: il futuro sarà fatto di più LNG ed energie rinnovabili e meno di progetti ambiziosi ma costosissimi e politicamente difficili come Eastmed.
“Sebbene il Covid-19”, scrive Mitchell “sembra abbia disfatto i significativi progressi fatti ne Mediterraneo Orientale, ironicamente può anche aver salvato gli Stati Mediterranei da investimenti poco lungimiranti”.