Fatti e tensioni negli Stati Uniti su come contrastare la pandemia. Gli aiuti cinesi tra i dossier che dividono Trump e alcuni governatori. Il punto di Marco Orioles
La lotta alla Covid-19 negli Usa ha ormai raggiunto il suo climax, ben evidenziato dal numero dei contagi che – secondo il calcolo fatto dalla Johns Hopkins University – ha sfondato il tetto delle 300 mila unità mentre quello dei morti ha superato quota 8 mila, 1,224 dei quali nella sola giornata di ieri, diventata così la più letale per l’America da quando è stata risucchiata nell’emergenza globale partita da Wuhan.
Ma le cifre alle stelle non sono l’unico indicatore di una situazione in via di rapido deterioramento. Non è da sottovalutare nemmeno la dichiarazione di disastro in Winsconsin e Nebraska siglata ieri da Donald Trump, che aveva già compiuto questo passo altre 40 volte contando i 36 stati già precipitati nella calamità più i territori delle Isole Vergini, delle Marianne, di Guam e Puerto Rico.
Sono state però le stesse parole pronunciate ieri dal presidente a dare la misura del clima negli States. “Ci saranno un sacco di morti”, ha spiegato ieri il tycoon durante la consueta conferenza stampa riferendosi alla settimana che verrà (“la più dura di tutte”).
Presente alla Casa Bianca insieme al padrone di casa e all’infettivologo Anthony Fauci, la coordinatrice della task force anti-Coronavirus Deborah Brix non ha potuto che confermare le previsioni del presidente, richiamando la valutazione fatta dall’Institute for Health Metrics and Evaluation secondo cui i tre maggiori focolai d’America – New York, Detroit e la Louisiana – sperimenteranno il picco dei casi tra sei o sette giorni.
Di un “range di sette giorni” entro cui quella “montagna” di numeri avrà raggiunto la “vetta” ha parlato ieri anche il governatore di New York Andrew M. Cuomo, che ha anche annunciato il nuovo bilancio dell’emergenza per lo Stato che ospita la metropoli più famosa del mondo: 113.700 diagnosi di Covid-19 e 3.500 morti.
Se il nome di Cuomo è rimasto in primo piano per tutta la giornata di ieri non è solo per i numeri da apocalisse del suo Stato, bensì per il nuovo episodio della ormai quotidiana polemica con il presidente per le attrezzature mediche – tra cui i respiratori per le unità di terapia intensiva – di cui NY ha un disperato bisogno ma che, secondo l’accusa di Cuomo, vedrebbero Casa Bianca e governo federale inadempienti.
Ieri però Cuomo ha pensato bene di far saltare il banco ricorrendo alla mossa più anti-trumpiana di tutte: rivolgersi al nemico n. 1 degli Usa, ossia la Cina, il cui governo – come ha fatto sapere istantaneamente tutta la stampa Usa – si è adoperato per spedire a NY un pacco dono contenente 1000 respiratori.
Alla Casa Bianca, naturalmente, non solo non l’hanno presa bene, ma hanno immediatamente organizzato il contrattacco. Ecco dunque The Donald parlare di “richieste gonfiate” da parte delle amministrazioni locali per attrezzature di cui non vi sarebbe alcuna scarsità (molti amministratori di ospedali gli avrebbero anzi confermato di essere coperti quanto ai “bisogni essenziali” in termini di materiale e attrezzature sanitari).
Eccolo, soprattutto, attaccare Cuomo a testa bassa. “Vuole 40 mila respiratori”, ha tuonato Trump per infilzare un uomo accusato di aver sprecato, a causa di insipienza o scarsa lungimiranza, “la possibilità di averne 16 mila alcuni anni fa”.
Ma è soprattutto l’ingratitudine il difetto che il presidente imputa ad un governatore che da lui avrebbe ricevuto “più di quanto chiunque altro abbia ricevuto in tanto tempo”.
Nel tempo del Coronavirus, le risse tra autorità centrale e quelle periferiche è diventata un rito legato un giorno ai rifornimenti del governo, un altro alle divergenze tra i singoli Stati sulle misure di emergenza da adottare – tema che agli italiani suonerà assai familiare – e un altro ancora sulle differenti percezioni della crisi e della sua gravità.
Ieri ha assunto così nuovamente rilievo la diatriba tra Trump e il governatore della California Gavin Newsom per via della telefonata fatta dal primo ai leader delle maggiori associazioni sportive, incluso il n. 1 della National Football League, Roger Goodell, e quello della leggendaria NBA, Adam Silver, per esprimere loro il suo auspicio di una riapertura il più presto possibile di stadi e palazzetti dello sport.
“Rivoglio i fan dentro le arene”.
Una provocazione bella e buona, per il governatore di uno Stato che conta ben tre squadre che militano nella NFL e che infatti, a chi gli ha chiesto se fosse possibile la riapertura dei campionati a settembre, ha risposto di “non preved(ere) che questo possa succedere” in California.
L’episodio rivela una volta di più l’irritazione del capo della Casa Bianca per un lockdown che non può che avere effetti devastanti sull’economia a stelle e strisce.
Irritazione riaffiorata anche ieri quando Trump ha spiegato che, a suo avviso, l’America “non è stata immaginata per essere chiusa. La cura non può essere peggiore del problema”.
La differenza di vedute su questo punto tra Trump e i suoi stessi collaboratori è apparsa evidente, di nuovo, nella conferenza stampa di ieri alla Casa Bianca.
Se da un lato il presidente ha espresso pubblicamente il suo desiderio di ripristinare la normalità entro il giorno di Pasqua, per evitare che una delle feste religiose più amate dagli americani si trasformi in un giorno “triste” (si è spinto persino ad immaginare cerimonie religiose all’aperto ma nella più “grande separazione” tra i fedeli), dall’altro lato il suo assistente scienziato Fauci ha lodato pubblicamente i cittadini di Washington che ha visto con i propri occhi in coda davanti ad un ristorante take away rispettando la distanza sociale.
“Per quanto tutto ciò faccia riflettere e sia difficile, ciò che stiamo facendo fa la differenza”, è stato il commento fatto da Fauci a pochi passi da un Trump che non ha aspettato tempo per replicare.
“La mitigazione funziona. Ma ancora una volta, non possiamo distruggere il nostro Paese”.
E a proposito di distruggere il Paese, The Donald sembra avere le idee molto chiare su chi ci stia provando e su come impedirglielo, anche se tutto ciò rischia di provocare conseguenze devastanti e anche incidenti internazionali.
Prova ne sono le dichiarazioni del premier canadese Justin Trudeau, adirato con il collega Usa dopo che questi, impugnando il Defense Production Act, ha firmato un ordine diretto al colosso del Minnesota 3M per impedirgli di esportare in Canada e in America Latina le sue mascherine N95.
“Gli Usa – sono state le parole di Trudeau – si farebbero del male da soli, così come se lo farebbe il Canada, se si verificasse un’interruzione della circolazione di beni e servizi essenziali lungo il confine”.
Perché il messaggio fosse chiaro ed inequivocabile, il premier ha aggiunto che il Canada ha “un enorme numero di prodotti che sono essenziali agli Usa nella lotta al Covid-19”, oltre a contare tra i propri cittadini un rilevante numero di medici e infermieri che ogni giorno attraversa il confine per servire negli ospedali d’America.
Illustrato il punto, Trudeau ha quindi scagliato l’ultima bordata: entro domani arriveranno in Canada dalla Cina milioni di mascherine.
Dall’altra parte del confine, Trump non ha potuto far altro che confermare la bontà della sua decisione di venerdì nei riguardi di 3M.
“Adesso stiamo lavorando con 3M – ha chiarito il tycoon – per capire se tutto andrà bene o no, in ogni caso vogliamo che loro aiutino questo Paese (…). Abbiamo bisogno delle mascherine. E non vogliamo che le ottenga altra gente (…). Se la gente non ci da quel di cui ha bisogno il nostro popolo, diventeremo cattivi, e siamo stati molto cattivi”.
Dal canto suo, 3M si è difesa come ha potuto diramando un comunicato nel quale ha evidenziato le “significative implicazioni umanitarie del cessare i rifornimenti di mascherine ai lavoratori della sanità di Canada e America Latina, dove noi siamo un fornitore fondamentale “ delle stesse.
L’azienda si è detta inoltre convinta che arrestare l’export sia deleterio per gli Usa in quanto gli altri Paesi potrebbero fare altrettanto determinando una diminuzione dei beni disponibili allo stesso popolo americano.
“Questo è il contrario di ciò che noi e l’amministrazione desideriamo”.