Tutte le ultime mosse dell’amministrazione Trump per produrre beni indispensabili a fronteggiare la pandemia Covid-19
È risultato fortunatamente negativo il nuovo test sul Covid-19 fatto ieri da Donald Trump: il presidente, ha fatto sapere la Casa Bianca dopo che il risultato del nuovo test rapido è arrivato in appena quindici minuti, “è in salute e senza sintomi”.
Non lo stesso può dirsi, invece, per il resto del popolo americano, in mezzo al quale si trova il numero di contagiati da Coronavirus più alto del mondo.
È una verità talmente amara che è stato costretto ad ammettere anche un inguaribile ottimista come il vicepresidente Mike Pence quando, intervistato mercoledì dalla Cnn, ha spiegato che “l’Italia potrebbe essere l’area più comparabile agli Usa” in termini di diffusione della malattia e delle sue conseguenze.
E a proposito di conseguenze, i vertici Inps finiti nel mirino delle critiche in Italia a causa del sito web andato in tilt per la mole delle domande dei lavoratori colpiti dal Covid-19 avranno rivolto un pensiero affettuoso ai colleghi americani del Dipartimento del Lavoro sulle cui scrivanie si sono appena depositate 6.6 milioni di richieste di sussidi di disoccupazione.
Si tratta, fa notare il New York Times, di un numero venti volte superiore rispetto a quello registrato in una settimana ordinaria, oltre che il più alto dato settimanale registrato da quando il governo ha cominciato nel lontano 1967 a raccogliere queste statistiche (il precedente record, ricorda Politico, risale alla settimana scorsa, quando le domande sono state 3,3 milioni).
Se questo è l’andazzo, è alle porte un altro record: il superamento del numero totale di americani (15 milioni) che persero il lavoro in occasione della Grande Recessione di dodici anni fa.
A detta di Ian Shepherdson, capo economista di Pantheon Macroeconomics, ad aprile si potrebbero infatti contare tra 16 e 20 milioni di nuovi disoccupati, con il risultato di far balzare il tasso di disoccupazione tra il 13 e il 16%.
Ma gli americani non stanno perdendo solo le certezze di un lavoro e di un reddito. Anche un bene inalienabile come la democrazia sta perdendo pezzi, vista la decisione presa ieri da quindici Stati Usa (Alaska, Connecticut, Delaware, Georgia, Hawaii, Indiana, Kentucky, Louisiana, Maryland, New York, Ohio, Pennsylvania, Rhode Island, West Virginia, Wyoming più il territorio di Puerto Rico) di posticipare il voto delle primarie democratiche o, seguendo un’alternativa che dilaterebbe comunque non poco i tempi elettorali, di ricorrere al voto postale.
A ruota, inoltre, è arrivata anche la decisione dei democratici di far slittare da luglio ad agosto la Convention nazionale del partito chiamata di rito ad incoronare il candidato che a novembre sfiderà Donald Trump alle urne.
Per il popolo americano terrorizzato dal Coronavirus, niente però è più spaventoso del venir meno delle libertà fondamentali, quelle di movimento e di riunione, sospese per decisione dei governatori di 37 Stati dell’Unione.
Un numero, quello degli Stati che hanno ordinato alla gente di restare a casa, che sembra destinato molto presto a lievitare, facendo venir meno in particolare l’eccezione più vistosa di tutte, quella del Texas e dei suoi 28 milioni di abitanti (4 mila dei quali positivi al Covid-19), sul cui destino il governatore Abbot ha per il momento preferito affidarsi alle autorità locali.
Ieri infatti il n. 1 degli scienziati della task force governativa anti-Coronavirus, l’infettivologo Anthony Fauci, ha pubblicamente auspicato che i 13 Stati ancora senza restrizioni si conformino al resto del Paese. “Non capisco perché ciò non stia accadendo”, ha affermato Fauci ai microfoni della CNN.
Ma più che la resistenza dei governatori inadempienti – che non dovrebbero tuttavia reggere ancora molto la pressione della situazione oltre a quella dei colleghi come, Gavin Newsom, n. 1 della California, che dalle frequenze della Cnn ha chiesto a gran voce ai suoi colleghi riluttanti: “Che state aspettando ancora?” – Fauci dovrà fare i conti con il presidente e il suo auspicio di un approccio da lui definito “flessibile”.
“Se c’è, poniamo, uno stato del Midwest, o l’Alaska, che non hanno problemi” – si è spiegato The Donald l’altro ieri – “è dannatamente brutto dirgli ‘chiudi’. Dobbiamo avere un po’ di flessibilità”.
Ma anche alla Casa Bianca trumpiana lo spazio per la riluttanza – che, ricordiamo, nelle prime battute di questa emergenza ha attirato sul presidente un diluvio di critiche feroci – si è ormai ridotto al lumicino.
Prova ne sono le nuove linee guida sull’uso delle mascherine che la presidenza stava finalizzando nella giornata di ieri in previsione dell’approvazione prevista per oggi: direttive che accolgono di fatto le richieste avanzate, e in certi casi tradotti in atti amministrativi, di sindaci come quello di Los Angeles, Eric Garcetti, e quello di New York Bill de Blasio, di rendere la mascherina obbligatoria per chiunque in America si muove nello spazio pubblico.
In base alle precedenti direttive, le mascherine erano suggerite solo alle persone contagiate e a quelle soggette a complicazioni in caso di malattia respiratoria.
Poiché però la ricerca ha mostrato che il contagio si propaga anche attraverso persone apparentemente in salute, ecco che s istituzioni come il Centers for Disease Control and Prevention hanno proposto piani ancora più drastici– con mascherine obbligatorie per tutti i 330 milioni di americani su tutto il territorio nazionale – di quello in discussione alla Casa Bianca.
Le nuove disposizioni, in ogni caso, parrebbero applicabili solo nel perimetro delle aree più colpite dal virus. Le regole dovrebbero inoltre essere diverse per categoria sociale: mascherine N95 per le sole persone che entrano in contatto con i malati, e coperture più blande, incluse le sciarpe e i bandana, per i soggetti che si muoveranno in città tra farmacie e supermercati.
Le disposizioni della Casa Bianca dovranno tuttavia fare i conti con le ben diverse indicazioni dell’OMS, che ha appena ribadito la propria convinzione che le mascherine debbano essere indossate solo dai malati e dal personale sanitario e che, parola del capo della sezione epidemie Mike Ryan, “non vi sono prove specifiche che suggeriscano che una popolazione che indossa in massa le mascherine ne ricavi qualche beneficio”
Sarà anche per questo che Deborah Birx, coordinatrice della task force anti-Covid della Casa Bianca, ha ammonito circa il “falso senso di sicurezza” recato da un eventuale obbligo universale di indossare le mascherine.
Se c’è un rimedio alla pandemia, ha spiegato Birx, sono invece le misure di distanziamento sociale: sono le stesse, ha sottolineato, che hanno determinato l’inarcamento verso il basso delle curve del contagio nei paesi che hanno optato per il Lockdown.
A Washington, insomma, la guerra contro il virus procede con determinazione. Lo dimostra un’altra mossa di ieri del presidente che – insoddisfatto per il ritmo di produzione del materiale sanitario necessario per la lotta al virus, a partire dalle mascherine e dai respiratori – ha invocato il Defense Production Act con il proposito di “rimuovere gli ostacoli nelle supply chain che minacciano la rapida produzione” di quel materiale.
Ricorrendo ad un provvedimento risalente alla guerra di Corea che mette in capo al governo la decisione su chi, cosa e come deve produrre beni indispensabili durante un’emergenza, Trump ha apposto quindi la sua firma su un memorandum presidenziale che ha sei indirizzi in calce: quelli di General Electric Co., Hill-Rom Holdings Inc., Medtronic Public Limited Co., ResMed Inc., Royal Philips N.V. e Vyaire Medical Inc, ossia le aziende che riceveranno ora tutte le materie prime e i componenti necessari per fabbricare quei benedetti respiratori.
Questa, almeno, è la responsabilità in capo al Segretario alla Sicurezza Interna Chad Wolf e al suo collega della Salute Alex Azar, cui l’ordine del presidente conferisce “l’autorità necessaria (per) agevolare il rifornimento di quei materiali” alle aziende in questione.
Ma c’era anche il nome di 3M ieri sui documenti portati alla firma di Trump; lo si trova, nella fattispecie, su un ordine che, invocando ancora il Defense Production Act, autorizza Azar e il n. 1 della Federal Emergency Management Agency, Pete Gaynor, a sostenere 3M affinché faccia la sua parte in questo sforzo collettivo.
“Speriamo che siano in grado di fare ciò che ci si aspetta da loro”, è stato il commento riservato da The Donald ad un’azienda come 3M che in serata si è beccata persino un tweet astioso del presidente:
We hit 3M hard today after seeing what they were doing with their Masks. “P Act” all the way. Big surprise to many in government as to what they were doing – will have a big price to pay!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) April 3, 2020
Sebbene dalla Casa Bianca non abbiano voluto commentare l’uscita del boss, ci ha pensato il suo consigliere economico Peter Navarro a svelare l’arcano dichiarando che “abbiamo avuto qualche problema ad assicurarci che tutta la produzione di 3M che va in giro per il mondo torni qui, nel posto giusto, in misura sufficiente”.
Anche nella lotta al Covid-19, la parola d’ordine è: America First!