Che succede in Libia? “La Russia non sguazza nell’oro. Dubito della potenza della Turchia. E l’America guarda: non escludo che Washington abbia mandato un messaggio alla Russia dicendole che in Libia può fare quello che vuole, come in Siria”. Parla il generale Carlo Jean, intervistato da Marco Orioles
Mentre la crisi libica si fa ogni giorno più complicata, e gli attori più spregiudicati come il presidente russo Vladimir Putin e quello turco Recep Tayyip Erdogan la condizionano a tutto vantaggio dei propri interessi (e a detrimento di quelli degli altri), noi italiani – intesi come popolo e lettori di giornali di carta e non – contempliamo con un certo imbarazzo le mosse di Palazzo Chigi e della Farnesina che paiono proprio cercare Godot.
È una situazione, quella della politica estera italiana nella nostra ex colonia, che costringe anche un compunto analista come Carlo Jean a c0mmenti poco generosi nei confronti di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio.
Al generale, il compito di riannodare i fili di una situazione dove, oltre al futuro assetto di un Paese oggi in preda a una guerra per bande con il concorso di potenze grandi e medie e dei relativi arsenali, sono in gioco colossali interessi energetici e, dunque, anche il prezzo della nostra bolletta.
Jean ricorda come in questo Grande Gioco mediterraneo siano in ballo non solo il gas e il petrolio libici e il ruolo della nostra Eni, ma anche gli immensi giacimenti di gas del bacino orientale su cui è intervenuto con l’ascia il Sultano di Ankara con il suo accordo di spartizi0ne delle zone di interesse economico esclusivo (Zee) siglato con il premier tripolino Sarraj lo scorso novembre.
Ecco la conversazione di Start Magazine con Carlo Jean.
Generale, Putin e Erdogan si sono spartiti la Libia?
Anche se la situazione sembra proprio così, io ho qualche dubbio soprattutto sul ruolo e le mire della Turchia. Se infatti Putin ha sicuramente un grosso vantaggio perché le armi che fornisce al generale Haftar, così come i volontari che mette a disposizione del suo esercito, passano attraverso l’Egitto, le forze turche devono necessariamente arrivare per via aerea o, molto più verosimilmente, per nave. Questo vale soprattutto per gli equipaggiamenti pesanti, che non possono essere trasportati da aerei ma solo per nave.
In Libia però da quasi nove anni c’è un embargo che, teoricamente, dovrebbe impedire tutto questo.
Un embargo ha significato se poi viene imposto e rafforzato con l’impiego della forza, proprio come era stato fatto nella ex Jugoslavia. Nel caso di cui stiamo parlando, esso funzionerebbe se ad esempio le navi europee della missione Sophia potessero fermare tutte le navi dirette in Libia ed ispezionarle per verificare che non vi sia armamento a bordo, e in quel caso procedere a requisire la nave. Però questo tecnicamente è un atto di guerra che dovrebbe essere autorizzato dalle Nazioni Unite, che per inciso sono le stesse che hanno imposto nel 2011 un embargo che è, se mi consente l’espressione anglosassone, puro wishful thinking. Si torna qui al solito problema, ossia che parlare di embargo senza poi porsi il problema del cosidetto enforcing di quello stesso embargo è un puro esercizio verbale, mere chiacchiere insomma, che non cambiano di una virgola la situazione sul terreno.
In questa situazione ormai fuori controllo aumentano nel nostro paese le voci di chi vorrebbe che l’Italia non se ne stesse con le mani in mano ma reagisse stringendo innanzitutto un accordo con la Francia.
Si tratterebbe senz’altro di un’ottima cosa, anche perché gli interventi in Libia di Russia e Turchia rischiano seriamente di gettare fuori dal paese, oltre a noi, anche la Francia. Ma un accordo tra Roma e Parigi è molto difficile per un semplice motivo, ossia perché sotto sotto la Francia appoggia Haftar e quest’ultimo sta vincendo. C’è poi un secondo motivo per cui trovo improbabile un accordo con Parigi, ed è il fatto che sulla partita del gas del bacino levantino e della costruzione del gasdotto Eastmed siamo su posizioni contrapposte. Noi infatti, a differenza di Parigi, abbiamo sostanzialmente sostenuto la Turchia, nonostante questa abbia cacciato con le sue navi da guerra la nostra piattaforma Eni a sud di Cipro, mossa a cui noi abbiamo di fatto obbedito ritirandoci in buon ordine.
In tutto questo bailamme, sfugge francamente la posizione degli Usa, mai così indecifrabile. Come si spiega questo enigma?
Gli Usa hanno una posizione ambigua in quanto formalmente appoggiano Sarraj, ma di fatto tutti ricordiamo che lo scorso 15 aprile Donald Trump ha fatto una telefonata molto cordiale ad Haftar malgrado quest’ultimo dieci giorni prima avesse lanciato l’attacco a Tripoli. L’America sta sostanzialmente a guardare, anche perché non ha la minima voglia di intervenire. Del resto, la loro maggiore preoccupazione è rappresentata dai jihadisti, e per quelli dispongono di una base per droni in Niger dalla quale intervengono contro i militanti che si muovono nella regione del Sahel e oltre.
Tuttavia se Putin si accorda con Haftar e questo gli concederà magari di installarsi con le proprie basi in Cirenaica, dunque nel cuore del Mediterraneo e alle porte dell’Africa, non sarebbe uno scacco per l’impero a stelle e strisce?
Il ragionamento che gli Usa fanno in questo momento è molto diverso. Loro stanno cercando l’aiuto della Russia in funzione anti-cinese, e mirano ad evitare che Mosca e Pechino cementino un’alleanza. In questo senso non escluderei che Washington abbia mandato un messaggio alla Russia dicendole sostanzialmente che in Libia può fare quello che vuole, proprio come ha fatto in Siria.
E in tutto questo, l’Italia…?
Noi ci siamo cullati con l’idea molto peregrina di una cabina di regia assegnata all’Italia che i nostri governi hanno usato solo per farsi propaganda e peraltro in maniera molto maldestra, come ha dimostrato l’incontro organizzato l’altro giorno a Palazzo Chigi con Sarraj e Haftar che è andato come ben sappiamo.
Una gaffe planetaria che avrà mandato non poco in ambasce il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
A mio avviso il presidente della Repubblica è intervenuto, almeno informalmente, sul governo anche per cercare di spronarlo a reagire ai fatti gravissimi di questi giorni. Non dimentichiamo che il telefono a Roma è rimasto muto, ma non quello di altre capitali europee, mentre gli Usa lanciavano un attacco contro il generale Soleimani. Questo è il trattamento che è stato riservato ad un paese che fornisce il secondo contingente militare più numeroso alla missione in Iraq. Si è trattato chiaramente di una mancanza di riguardo, se non di un’offesa alla nostra nazione, che peraltro non ha proferito una singola parola, rifiutandosi persino di convocare l’ambasciatore Usa per presentare le nostre rimostranze. Tutto questo ben illustra la tendenza del premier Conte e del ministro degli Esteri DI Maio di affidarsi rispettivamente a Padre Pio e a San Gennaro, sperando che le cose si aggiustino da sole.
Che cosa bisogna sperare dunque?
Qui c’è solamente da sperare che i rapporti speciali che l’Eni nutre con tutti i dirigenti libici salvino il salvabile. In Libia poi abbiamo un ottimo ambasciatore che ha mantenuto intatto il filo della diplomazia. Il problema è che il ministro Di Maio, anziché affidarsi al nostro eccellente corpo diplomatico, preferisce affidarsi a qualche illetterato. E i risultati si vedono.
Insomma, per salvare le nostre posizioni in Libia, e quelle dell’Eni in particolare, che dobbiamo fare?
Abbassare il più possibile la nostra esposizione diplomatica per non far ridere il mondo. E auspicare che Conte e Di Maio non facciano altri pasticci.
Eppure c’è chi ci consiglia di compiere urgentemente un cambio di passo, spostandoci magari nel campo di Haftar, di fronte alle mosse spudorate e potenzialmente devastanti di Putin ed Erdogan.
Io dico invece che non dobbiamo drammatizzare la situazione per un motivo molto semplice. Sia la Russia che la Turchia non possono fare granché perché hanno appena gli occhi per piangere. Ricordo che la Russia ha un Pil simile a quello dell’Italia. Quanto alla Turchia, dubito che sarà effettivamente in grado di proiettare la propria potenza a migliaia di chilometri di distanza. Detto questo, non possiamo dimenticare il danno subito dall’Italia dalle mosse di Erdogan, perché ora rischiamo non solo di perdere le nostre posizioni nel bacino levantino e in Eastmed, ma anche di guastare i rapporti con Egitto, Grecia, Cipro ed Israele.
A proposito del gas del Mediterraneo orientale e di Eastmed, che cosa dovremmo fare, o meglio cosa dovrebbe succedere, per non far evaporare questo affare non da poco?
Dobbiamo sperare che la Germania ci dia una mano chiudendo i finanziamenti all’economia turca. La Turchia è molto vulnerabile dal punto di vista economico e se l’Unione Europea, con cui Ankara ha più del 50% dei suoi scambi commerciali, trovasse una posizione comune potrebbe raffreddare tutti i bollenti ardori di Erdogan.