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Regeni, il doppio scacco egiziano è come sale sparso su una ferita ancora viva

Pubblicato il 20/01/2020 - Messaggero Veneto

C’è un pezzo importante di questo Paese che non ha ancora abbandonato la speranza che la triste vicenda di Giulio Regeni abbia un epilogo giudiziario.

Sono le centinaia di migliaia di italiani che ieri sera erano incollati allo schermo tv ad ascoltare chi, a differenza di altri, mai ha ammainato in questi quattro interminabili anni le bandiere della verità e della giustizia. Paola Deffendi e Claudio Regeni non sono solo le fiaccole che tengono viva – anche con un libro fresco di stampa cui auguriamo tanta fortuna – la memoria di un giovane talentuoso ed intraprendente a tal punto da sfidare la cappa di ferro del regime di al-Sisi e prendersi a cuore le sorti dei sindacati indipendenti egiziani. Una missione dall’alto valore civile, oltre che scientifico, che proprio per questo ha decretato la morte violenta del suo artefice.

Un delitto su cui tanti italiani, all’unisono con Paola e Claudio, continuano a pretendere di vederci chiaro. Sono quegli uomini e donne del Friuli come della Sicilia che, dei fatti accaduti al Cairo a cavallo del 2015 e del 2016, pretendono una chiara assunzione di responsabilità da parte di chi, avendo dal lontano 2013 il pieno comando e controllo di una macchina repressiva che ha finito per falciare anche la vita di un cittadino italiano, non può continuare a lavarsene le mani.

Sono quelle stesse persone che si saranno domandate, pochi giorni fa, quali parole il presidente Abdel Fattah al-Sisi abbia proferito al cospetto del nostro primo ministro Giuseppe Conte, e viceversa. Siamo tutti ben lieti, naturalmente, che tra Egitto e Italia siano aperti tutti i canali diplomatici, e una relazione strategica per noi in una regione chiave come il Mediterraneo possa essere coltivata con la necessaria continuità.

Tra l’altro, a nessuno ormai sfugge in questo Paese che la collaborazione di Sisi è indispensabile se vogliamo che quella grave emergenza per l’Italia che è la guerra civile libica si avvii a rapida conclusione. Fu questa, per inciso, la principale ragione che portò il governo presieduto da Paolo Gentiloni a rimandare il nostro ambasciatore al Cairo dopo lo strappo dell’anno precedente. Fu un atto, si disse allora, di realpolitik, solo parzialmente addolcito dalla solenne promessa egiziana di accelerare la cooperazione giudiziaria con Roma sul caso Regeni.

Purtroppo, due anni e mezzo dopo siamo costretti a constatare due cose molto amare. Che sulla Libia, anzitutto, l’Egitto è saldamente schierato – come abbiamo visto appena ieri alla Conferenza di Berlino – dalla parte opposta a quella dell’Italia, oltre che delle stesse Nazioni Unite. E poi, soprattutto, che quella promessa di rivelarci i nomi degli assassini di Giulio, e sottoporli a processo, è evaporata come neve al sole. Un doppio scacco che non procura solo danni irreparabiil alla reputazione e agli interessi di una nazione che formalmente è l’ottava potenza mondiale. Il comportamento egiziano rappresenta soprattutto sale sparso su una ferita ancora viva.

Viva però come la memoria di Giulio e della sua testimonianza, che fortunatamente nessun esecutivo indolente o governo straniero impudente potrà mai cancellare.

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