Un destino davvero beffardo ha voluto che la notizia dell’anno venisse oscurata dall’emergenza da Covid-19.
Ma è impossibile non cogliere la rilevanza dell’accordo di pace siglato sabato a Doha dai rappresentanti americani e da quello che il documento stesso menziona, per riferirsi alla controparte talebana, come “Emirato Islamico dell’Afghanistan”. Un pezzo di carta con il quale si avvia a conclusione la guerra più lunga – 19 anni e un bilancio di 3.500 morti tra i militari Usa e quelli di mezzo mondo (Italia inclusa) schierati laggiù – mai combattuta dall’America.
Vorremmo chiuderla così, questa riflessione: salutando la fine di un conflitto le cui cronache hanno scandito la gran parte della nostra vita adulta.
Il problema è che sabato non si è abbassato solo il sipario di una guerra di cui molti, a partire dal popolo americano, non coglievano più il senso. Il vero problema è che è anche ufficialmente terminata, in modo a dir poco imbarazzante, una vera e propria epoca: quella cominciata nel 2001 con la strage delle Torri Gemelle e proseguita con quella che fu subito definita dal governo americano del tempo la “guerra al terrore”.
Chi ha qualche capello in bianco in più non farà fatica a ricordare la fibrillazione che pervase il mondo intero incollato ai teleschermi che trasmettevano da New York la diretta dell’attentato più devastante mai messo a segno nella storia del terrorismo. Si ricorderà anche del nome divenuto istantaneamente l’epitome del nuovo male da sradicare: Osama bin Laden. L’intervento militare nel rifugio afghano del capo di al Qa’ida che l’America approntò, avviò e portò a conclusione in tempi record abbattendo il mostro talebano fu accompagnato, anche questo lo rammentiamo bene, da un dibattito globale le cui coordinate sono da rinvenirsi nel bestseller di Samuel P. Huntington, “Lo scontro di civiltà”.
Alzi la mano chi, in quei giorni convulsi, non prestò attenzione alla tesi di una resa dei conti necessaria tra il “bene” incarnato dall’Occidente democratico e il “male” rappresentato dall’islam radicale e da quegli estremisti noti, oltre che per il nome esotico, per aver trasformato un Paese già disastrato in un cimitero dei diritti anche più elementari come il far volare gli aquiloni. Oltre al contrasto di un insidioso neo-terrorismo di matrice islamica, la missione degli Usa assunse presto insomma i toni della palingenesi e le sfumature della redenzione.
Ed è proprio questo il punto che va sollevato mentre si celebra l’epilogo di tale epopea. Un epilogo il cui sapore amaro sta tutto in quell’entità – Emirato – che i talebani hanno preteso di risuscitare nel testo dell’accordo di Doha. Non basta un editoriale per psicanalizzare una civiltà che, dopo aver battuto per vent’anni la grancassa della lotta all’islam fanatico e oscurantista, suona la ritirata rimettendo di fatto un intero popolo nelle mani dei suoi carnefici. Washington ha senz’altro ottime ragioni per disimpegnarsi da un fronte non più prioritario come lo è, invece, quello della sfida con il rivale cinese.
Ma mentre provvede a ritirare i suoi soldati, sarebbe gradita anche qualche spiegazione sul senso ultimo di tutto ciò.
Sperando che non sia: “scusate, abbiamo scherzato”.