In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, la fine delle relazioni diplomatiche tra Taiwan e le Isole Salomone e Kiribati, che riconoscono Pechino e riducono ad appena 15 gli alleati della Repubblica di Cina. Nella sezione “notizie dal mondo”, la stima al ribasso dell’istituto danese Strand Consult su quanto costerà per le telco europee fare a meno della tecnologia Huawei per il 5G; l’annuncio dell’apertura entro l’inizio del 2020 del Balkan Stream, ramificazione del gasdotto Turkstream che porterà il gas naturale russo in Bulgaria passando dalla Serbia; il progetto di Niger e Cina per un oleodotto nel paese africano.
PRIMO PIANO: DUE ALLEATI IN MENO PER TAIWAN, CHE ORA NE HA SOLO QUINDICI
Quella che si è chiusa poche ore fa è stata una settimana nera per Taiwan, ma non per la Cina, che nello spazio di soli cinque giorni è riuscita a diminuire ulteriormente il novero dei paesi – che da 17 scendono ora a 15 – che riconoscono da un punto di vista diplomatico l’isola ribelle ma non la terraferma che persegue la riunificazione:
Taiwan cuts ties with Solomon Islands after learning the Pacific nation was switching diplomatic recognition to China.
Taipei accuses Beijing of using 'dollar diplomacy' to buy off its few remaining allieshttps://t.co/2GzQ3AhHeU pic.twitter.com/p27grrdvB8
— AFP news agency (@AFP) September 17, 2019
#BREAKING Kiribati severed 'diplomatic ties' with #Taiwan on Friday: Taiwan media pic.twitter.com/L1GchRUAAz
— Global Times (@globaltimesnews) September 20, 2019
Il primo colpo per Taiwan arriva lunedì, quando il consiglio dei ministri delle isole Isole Salomone approva con 27 voti favorevoli, nessun contrario e sei astensioni la fine, con effetto immediato, delle relazioni diplomatiche con Taipei e l’inizio di quelle con Pechino.
La mossa dell’ex protettorato britannico è devastante: Taiwan perde infatti la lealtà delle più grande delle isole del Pacifico (600 mila abitanti) che ancora la riconosceva. Arriva, inoltre, come un fulmine a ciel sereno: solo la scorsa settimana, la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, aveva dato il benvenuto ad una “delegazione di amici” provenienti dalle Salomone e capeggiata dal ministro degli Esteri Jeremiah Manele, assieme alla quale aveva discusso di come “espandere la cooperazione bilaterale in agricoltura, sanità e formazione”.
La situazione deve essere precipitata improvvisamente se è vero che il successivo lunedì, giorno del voto pro-Pechino del governo delle Salomone, il viceministro degli Esteri di Taiwan Hsu Szu-Chien si era recato precipitosamente in loco per tentare di salvare la situazione. Ma l’addetto stampa del primo ministro Manasseh Sogavare non ha potuto far altro che riferire alla stampa che, pur essendo al corrente della presenza nell’isola del viceministro, non aveva alba se sarebbe stato ricevuto o meno da Sogavare.
Lo smacco è stato tale che, a Taipei, il ministro degli Esteri Joseph Wu ha offerto le proprie dimissioni. Definendo “estremamente deplorevole” la decisione del governo delle Salomone, Wu ha quindi dovuto annunciare la “chiusura con effetto immediato delle relazioni diplomatiche con le Isole Salomone, la fine di tutti i progetti di cooperazione bilaterale, nonché il richiamo in patria dello staff dell’ambasciata, del personale tecnico e delle missioni mediche stazionate nelle isole”. Altrettanto è stato chiesto di fare alle Salomone.
In un accesso d’ira per il colpo basso subito dalla Cina, Wu ha inoltre fulminato la “diplomazia del dollaro” di Pechino e le sue “false promesse di ampie importi di aiuti” fatte per “assicurarsi che il governo delle isole Salomone adottasse una risoluzione per terminare le relazioni diplomatiche con Taiwan”.
La principale sconfitta della giornata è tuttavia Tsai, che sceglie Twitter per scagliarsi contro un regime che ricorre a queste tattiche per “costringerci” ad ingoiare l’annessione. Se questo è l’intento del Partito Comunista Cinese, la risposta di Tsai è laconica e orgogliosa: “not a chance”.
The end of our relations with Solomon Islands reflects China’s unceasing efforts to lure away our allies, damage the morale of the Taiwanese people, & force us to accept "one country, two systems.” To this, the people of #Taiwan say: not a chance. https://t.co/76IzMSAOyx
— 蔡英文 Tsai Ing-wen (@iingwen) September 16, 2019
Gli altri sconfitti in questa partita si chiamano Stati Uniti, che non hanno certo taciuto. Il vicepresidente Mike Pence ha anzi cancellato seduta stante il bilaterale che avrebbe dovuto avere con Sogavare a margine dell’Assemblea Generale Onu che si apre oggi a New York:
Exclusive: Vice President Pence will not meet with Solomon Islands prime minister after nation cuts ties with Taiwan in favor of China https://t.co/oDEiIDFSQq pic.twitter.com/6nSurf9aH9
— Reuters Top News (@Reuters) September 18, 2019
La reazione di Pence è ancora più comprensibile alla luce di quanto riferisce Reuters: a luglio, Sogavare aveva scritto una lettera al vice di Trump dicendogli di essere “disposto favorevolmente” a chiedere al suo gabinetto di rimandare alla fine dell’anno ogni decisione in merito alle relazioni diplomatiche con Taipei e Pechino.
Nella lettera, il premier avrebbe manifestato la necessità per il suo paese di ricevere aiuti per importanti progetti infrastrutturali. Per quanto non sia dato sapere quale sia stata la risposta degli Usa, Reuters ci informa che la Cina aveva messo sul piatto 8,5 milioni di dollari.
Se a questa informazione aggiungiamo quella fornita dal Guardian, che ha ricordato ieri come l’America abbia destinato alle Salomone appena lo 0,3% di tutti gli aiuti erogati dal 2011 al 2017, la scelta delle Salomone comincia a rivestirsi di una patina logica.
Cinque giorni dopo il passo compiuto dalle Salomone, a Pechino già si celebrava la lieta novella alla presenza dei nuovi amici:
China and the Solomon Islands signed a joint communique in Beijing Saturday on the establishment of diplomatic relations. pic.twitter.com/pBdLQa0JjG
— People's Daily, China (@PDChina) September 21, 2019
Nella guest house del governo, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il collega delle Salomone Jeremiah Manele hanno firmato l’accordo che formalizza l’avvio delle relazioni diplomatiche. In un raro momento di candore, Manele ha attribuito la svolta alle “necessità nazionali”, sentendosi rispondere da Wang che la Cina si impegna a supportare le Salomone nel “far avanzare il percorso di sviluppo che ha scelto per sé”.
Che si tratti di una vittoria diplomatica per Pechino è indubbio. E una vittoria capace come poche di ringalluzzire il regime, che non a caso ha sguinzagliato i giornali di partito per rimarcare il successo. Nell’editoriale pubblicato lunedì dal quotidiano in lingua inglese del Pcc, Global Times, si spiegava come l’accerchiamento cinese di Taiwan proseguirà fin quando l’isola “non avrà zero alleati”, mentre nello stesso giorno, con assonanza niente affatto sorprendente, il Quotidiano del Popolo prendeva di mira la presidente di Taiwan Tsai e il suo partito, ricordando loro che “presto o tardi Taiwan rimarrà con zero alleati diplomatici”.
Come se tutto ciò non bastasse, venerdì per Taiwan è arrivato il secondo colpo di questa sequenza mortale. A voltare le spalle a Taipei per abbracciare il Dragone è ora Kiribati che, con i suoi 115 mila abitanti, era il secondo paese più grande del Pacifico dopo le Salomone a continuare a riconoscere Taiwan.
Ad incaricarsi di annunciare al paese la pessima notizia ci ha pensato di nuovo il ministro degli Esteri Wu durante una conferenza stampa. “Il governo della Repubblica di Kiribatiu ha notificato ufficialmente al nostro governo che ha terminato le relazioni diplomatiche con la Repubblica di Cina. (…) Il nostro governo pertanto dichiara che ha terminato le relazioni diplomatiche con Kiribati con effetto immediato”.
Togliendosi i guanti, il ministro ha quindi accusato il presidente di Kiribati Taneti Mamau e alcuni membri del partito di governo di aver avuto rapporti sin troppo frequenti con Pechino da quando sono arrivati al potere nel 2016 nonché di nutrire “aspettative altamente irrealistiche a riguardo della Cina”.
In un successivo tweet, il Ministero degli Esteri ha espresso tutta la propria insoddisfazione per la scelta di Kiribati, sottolineando come Taiwan non si lascerà intimidire:
https://twitter.com/MOFA_Taiwan/status/1174974697273847809
E su Twitter si riversa anche l’ira della presidente Tsai per la perdita di “una vera amicizia” da parte di un Paese che ha deciso di diventare “una pedina della Cina”. La quale, aggiunge Tsai, pensa di poter influenzare con questi mezzucci le elezioni presidenziali dell’anno prossimo in cui c’è in ballo non solo la sua rielezione, ma – come sempre – la questione esistenziale dei rapporti con una terraferma che non nasconde più la propria intenzione di chiudere quanto prima il contenzioso con i cinesi recalcitranti di Taiwan.
We regret Kiribati’s decision to abandon our true friendship & become China’s pawn. China’s continued oppression of #Taiwan is an attempt to influence the upcoming election, but it only strengthens our determination to preserve our sovereignty & democracy. https://t.co/Slxd6STq6y
— 蔡英文 Tsai Ing-wen (@iingwen) September 20, 2019
Nello stesso momento, a Pechino, il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang suonava invece la cetra, dando il benvenuto a Kiribati “nella famiglia della cooperazione tra la Cina e le altre nazioni del Pacifico”. Con la sua scelta, ha aggiunto Geng, Kiribati ha dimostrato che “il principio dell’una sola Cina (…) costituisce una tendenza irresistibile dei nostri tempi”.
Quando gli storici si domanderanno le ragioni di tutto ciò, si imbatteranno senz’altro nell’articolo del sempre informato The Hill che ricorda come la decisione del governo di Kiribati sia arrivata, guarda caso, dopo che Taiwan si era rifiutata di accogliere una richiesta di “massiccia assistenza finanziaria” per l’acquisto di aerei commerciali.
Notizia confermata da Reuters che aggiunge ulteriori dettagli: la Cina, scrive l’agenzia di stampa citando un senior official di Taiwan al corrente dei fatti, ha offerto a Pechino un pacchetto di aiuti che comprende prestiti e un Boeing 737.
Così, con un pugno di dollari, la Cina in meno di una settimana è riuscita a scippare a Taiwan due dei suoi ultimi alleati. Il bilancio per il presidente Tsai è particolarmente pesante, visto che sotto il suo regno sono stati sette i paesi che le hanno voltato le spalle: oltre a Solomone e Kiribati, si tratta di Burkina Faso, Repubblica Dominicana, Sao Tome e Principe, Panama, El Salvador.
Alle celebrazioni per il settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare in programma il prossimo 1 ottobre il presidente cinese Xi Jinping avrà dunque due motivi in più per mostrarsi impettito e fiducioso del futuro che attende il suo Paese.
TWEET DELLA SETTIMANA
U.S. Ambassador Norland met with Field Marshal Khalifa Haftar on Thursday in Abu Dhabi to discuss the current situation in Libya and prospects for achieving a political solution to the Libya conflict. #Libya pic.twitter.com/stwW2qsRdu
— U.S. Embassy – Libya (@USAEmbassyLibya) September 19, 2019
L’ambasciatore Usa in Libia Richard Norland si è incontrato con il generale libico Khalifa Haftar ad Abu Dhabi, tre giorni dopo che il capo del LNA ha lanciato strike aerei sulla città di Sirte.
NOTIZIE DAL MONDO
Solo 3,5 miliardi per rimpiazzare Huawei dal 5G
Le telco europee sono preoccupate per il costo che dovrebbero affrontare qualora fossero costrette a obbedire alle pressioni degli Usa, che pretendono da parte loro la rinuncia ad utilizzare le attrezzature di Huawei in quanto sospettate di favorire il cyber-spionaggio da parte di Pechino, e il loro rimpiazzo con i prodotti di aziende più affidabili come le europee Ericsonn e Nokia?
Secondo un rapporto di Strand Consult, società danese di ricerche industriali, rilanciato da Reuters il problema è meno grave del previsto. Sulla base dei loro calcoli, fare a meno della tecnologia del colosso di Shenzhen dovrebbe implicare per le telco un aggravio di spesa di appena 3,5 miliardi di euro.
Si tratta, curiosamente, di un importo quasi venti volte inferiore rispetto alla stima fatta a suo tempo da GSMA, lobby industriale formata da 750 operatori di telefonia mobile che ha però rapporti molto stretti con Huawei. GSMA aveva previsto costi derivanti dall’esclusione di Huawei e dell’altro colosso cinese delle tlc, Zte, pari a ben 62 miliardi di dollari.
Stand Consult ha effettuato le proprie valutazioni basandosi su quanto è successo negli Usa e in Australia, dove le restrizioni imposte a Huawei e a Zte non hanno comportato un incremento sensibile dei prezzi né hanno determinato conseguenze in termini di aumento dei tempi per il lancio delle nuove reti 5G.
“Gli operatori mobili” – scrive Strand Consult nel rapporto – “devono aggiornare le loro attrezzature per ragioni tecnologiche, indipendentemente dal fatto che Huawei e Zte siano o meno nel mercato”.
Se i i veti e i vincoli posti dai governi di Washington e Canberra, conclude Strand, “non hanno comportato aumenti di prezzi negli Usa o in Australia”, si deve ritenere “improbabile” che analoghe restrizioni introdotte in Europa abbiano “un impatto negativo”.
Balkan Stream pronto all’inizio del 2020?
La diramazione del gasdotto Turkstream che porterà il gas naturale russo in Bulgaria passando dalla Serbia dovrebbe essere completato all’inizio dell’anno prossimo. Lo ha annunciato all’agenzia di stampa russa RIA Novosti il ministro dell’industria e del commercio russo Denis Manturov dopo un meeeting della commissione intergovernativa russo-bulgara tenutosi nella città portuale bulgara di Varna.
I bulgari, ha sottolineato il ministro, “hanno il compito di assicurare entro il 1 gennaio 2020 la costruzione di una sezione (del gasdotto) dal confine turco-bulgaro a quello bulgaro-serbo. (…) Facciamo affidamento sulla deadline che è stata fissata dalla parte bulgara”, ha aggiunto Manturov, “al fine di assicurare il completamento dell’opera entro il 1 gennaio, così da far partire le forniture di gas attraverso il TurkStream”.
Lungo 474 km, il Balkan Stream è destinato a diventare una parte della seconda gamba del Turkstream dalla quale transiteranno ogni anno, dalla Turchia alla Serbia passando per la Bulgaria, 17,75 miliardi di metri cubi di gas. La realizzazione del progetto, dal costo di 1,2 miliardi di dollari, è in capo al consorzio saudita Arkad Engineering, che ha anche recentemente vinto una causa in tribunale che contestava l’affidamento dei lavori.
Il ministro dell’Energia bulgaro, Temenuzhka Petkova, ha tessuto le lodi dell’opera, cui si è riferito con l’espressione “Balkan Stream”, magnificandone i benefici per l’intera regione. Ha inoltre annunciato l’interesse del suo paese ad “espandere la rete di transito del gas del paese, partendo dal confine turco-bulgaro e arrivando a quello con la Serbia”.
La Bulgaria, che non ha risorse naturali proprie, è interamente dipendente per il suo approvvigionamento di gas naturale dalla russa Gazprom, grazie alla quale copre il 95% del proprio fabbisogno.
Accordo Niger-Cina per un oleodotto
Il progetto è stato annunciato la settimana scorsa dal presidente Mahamdou Issoufou nel campo petrolifero di Agadem, dove dal 2011 opera la China National Petroleum Corporation (CNPC). La sigla dell’accordo è avvenuta invece la domenica successiva: a firmare per il Niger è stato il ministro del petrolio, Foumakoye Gado, mentre per i cinesi ci ha pensato il presidente della China National Oil and Gas Exploration and Development Corporation, sussidiaria della CNPC.
L’infrastruttura sarà lunga duemila km e trasporterà il petrolio estratto nel sudest del Niger fino al porto di Seme nel Benin. I lavori dovrebbero durare 42 mesi per un costo stimato di 4,5 miliardi di dollari. Attualmente, il petrolio nigerino deve essere trasportato attraverso il Ciad fino ad un porto nel Camerun, attraversando zone piagate dalla guerriglia jihadista.
Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.
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