Il Punto di Marco Orioles sulla conferenza che si terrà a Palermo sulla Libia
Lunedì e martedì, a Palermo, l’Italia ci prova. La conferenza sulla Libia indetta nel capoluogo siciliano rappresenta l’estremo tentativo, per il nostro Paese, di giocare sul tavolo del Paese dirimpettaio con un ruolo da protagonista, neutralizzando i piani alternativi (e ostili) della Francia e puntando su un processo politico che, sotto l’egida delle Nazioni Unite, mira a riassorbire il caos che affligge da troppo tempo la nostra ex quarta sponda.
Il governo italiano punta tutte le sue carte sulla road map presentata giovedì al Consiglio di Sicurezza dall’inviato speciale dell’Onu per la Libia Ghassan Salamé. Obiettivo dell’esecutivo è assicurarsi il massimo sostegno internazionale al percorso delineato dalle Nazioni Unite, il cui obiettivo è propiziare la riconciliazione nazionale e avviare la Libia verso nuove elezioni, al fine di ripristinare condizioni di legittimità e stabilità politica che permettano al Paese nordafricano di archiviare la lunga stagione di conflittualità che l’ha piagato dal 2011, anno dell’intervento Nato e della deposizione di Muhammar Gheddafi.
Sulla carta, il piano dell’esecutivo ha tutte le chance per portare a casa il risultato. Al tavolo di Palermo siederanno insieme il presidente del governo di Accordo Nazionale, Fayez al Serraj, il suo rivale della Cirenaica, il feldmaresciallo Khalifa Haftar, il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, e il capo dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, Khalid Al Meshri. Sono i quattro principali attori della crisi libica e i maggiori responsabili del perdurante stallo del processo politico. Metterli uno di fronte all’altro era la precondizione indispensabile per dare un colpo di reni alla riappacificazione. Ma la loro presenza a Palermo è condizione necessaria ma non sufficiente per garantire il successo all’iniziativa diplomatica italiana. Ci sono altre voci, nel panorama libico, che a Palermo non proferiranno parola. Soggetti che hanno già espresso il proprio disappunto per il mancato invito alla conferenza. Il quotidiano “Libya Herald” riferisce di dieci partiti politici e movimenti sul piede di guerra per non essere stati presi in considerazione.
Eppure, avere a Palermo almeno i quattro soggetti principali è già un successo, visto il clima di ostilità che avvolge le relazioni tra Tripoli e Tobruk. Il governo italiano ha dovuto faticare non poco per persuadere Haftar, il più refrattario di tutti al dialogo. La sua partecipazione è stata in bilico fino all’ultimo minuto. È stato indispensabile, ha raccontato La Stampa, un volo mercoledì a Mosca, dove Haftar era a colloquio col ministro della Difesa Sergei Shoigu, del capo dell’intelligence esterna (Aise) Alberto Manenti. Un intervento all’ultimo minuto che ha scongiurato la defezione di Haftar e la condanna all’irrilevanza della conferenza di Palermo.
L’incertezza ha caratterizzato anche la composizione del parterre dei leader internazionali. L’Italia ha dovuto incassare il forfait di Donald Trump e di Vladimir Putin, che manderanno a Palermo solo le seconde file: per gli Usa, l’inviato per il Medio Oriente, David Hale, e per la Russia, il vice ministro e rappresentante presidenziale per il Medio Oriente Mikhail Bogdanov. Bruciano anche la defezione della cancelliera Merkel, che sarà rappresentata dal ministro degli Esteri Niels Annen, e il gran rifiuto del presidente francese Emmanuel Macron, che in Libia sta giocando tutt’altra partita. Ci saranno, invece, il presidente della Tunisia Beji Caid Essebsi, i capi di Stato di Ciad e Niger, Idriss Deby Itno e Mahamadou Issoufou, il primo ministro algerino Ahmed Ouyahia, e gli inviati di Turchia e Qatar. In arrivo anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
Al Question Time alla Camera di mercoledì, il primo ministro Giuseppe Conte ha espresso “soddisfazione” per la presenza, a Palermo, dei “principali interlocutori dello scenario libico”. “Ci tengo a precisare”, ha sottolineato il premier, “che non riteniamo di poter risolvere tutti i problemi ma vogliamo creare una sostenibile occasione di incontro”. Per Conte, la conferenza palermitana rappresenta “un passo fondamentale nel percorso di stabilizzazione del Paese. Dove le elezioni dovranno tenersi il prima possibile, non appena le condizioni lo consentiranno”.
La questione delle elezioni è il primo nodo da sciogliere a Palermo. Sulla conferenza, incombeva come un macigno il progetto francese di tenerle a dicembre di quest’anno. Ipotesi disastrosa, secondo il nostro paese, che ha sempre escluso una precoce convocazione dei libici alle urne, in assenza delle necessarie condizioni politiche e di sicurezza. Come osserva il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, alla conferenza non si parlerà tanto di “elezioni” e della “formazione di un (nuovo) governo in Libia “, ma della necessità di “trovare un punto di sintesi tra le realtà presenti in Libia” al fine di “arrivare ad una pacificazione sul campo”.
L’asticella del successo è fissata nella sigla da parte degli attori libici presenti a Palermo di un documento che li impegni a rispettare le decisioni prese alla conferenza. Il governo, tuttavia, ostenta prudenza. “Non bisogna aspettarsi che ci siano dei documenti da firmare”, nota ancora il sottosegretario M5s: l’obiettivo che “può raggiungere questa conferenza è quello appunto di riuscire a creare e a favorire un dialogo”. Poco importa dunque se, come accadde con il vertice convocato da Macron a maggio a Parigi, gli accordi saranno formulati solo a livello verbale. Ciò che conta è far convergere tutte le parti sulla necessità di seguire lo spartito scritto dall’inviato Onu Salamé, superando le diffidenze reciproche e propiziando un clima di collaborazione.
La road map delle Nazioni Unite è stata illustrata giovedì da Salamé al Consiglio di Sicurezza. Tre i pilastri: la messa in sicurezza di Tripoli, attraverso la costituzione di una forza istituzionale che vada a sostituire, assorbendole, le varie milizie libiche per il controllo del territorio; riforme economiche, per assicurare che le risorse del paese siano distribuite equamente tra la popolazione; varo di un processo politico che favorisca la riconciliazione tra i vari attori e, solo dopo questo passaggio, conduca ad elezioni.
Il processo politico è l’elemento più ambizioso del progetto onusiano. Il piano di Salamé prevede la convocazione, all’inizio del 2019, di un congresso nazionale in cui siedano tutti gli stakeholder: dunque, oltre ai quattro attori presenti a Palermo, il variegato insieme di partiti e tribù che fino ad oggi hanno rappresentato interessi diversi e divergenti. Il congresso dovrà favorire il dialogo tra le varie componenti della società libica e condurre alla convocazione di elezioni parlamentari, da tenersi probabilmente nella primavera dell’anno prossimo. L’assemblea che sarà eletta dovrà, quindi, decidere le modifiche alla costituzione e convergere su una legge elettorale che preluda alla convocazione di elezioni presidenziali, il passaggio finale e più delicato di tutti.
Occhi puntati sul capoluogo siciliano, dunque. Dove, tra lunedì e martedì, l’Italia si gioca la reputazione, oltre che la chance di tutelare efficacemente i suoi interessi, a partire da quelli energetici e quelli che concernono i movimenti migratori. Il nostro paese non può permettersi un insuccesso, che ne sancirebbe l’irrilevanza dal punto di vista diplomatico. La Libia, soprattutto, non può ignorare l’assunzione di responsabilità che le viene chiesta: la differenza tra l’accettare o meno la road map dell’Onu equivale alla differenza tra il vedere la luce in fondo al tunnel o protrarre a tempo indeterminato il caos che la attraversa. L’ultima spiaggia, per l’Italia e la Libia, si trova a Palermo.
Marco Orioles