Fatti, commenti e scenari sulla Libia dopo la conferenza di Palermo voluta dal governo italiano. Il Punto di Marco Orioles
La Conferenza di Palermo sulla Libia si conclude senza una dichiarazione scritta, ma solo con un “un accordo verbale ma vincolante”, come lo definisce il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino. Quanto basta, al governo italiano, per cantare vittoria. “Complimenti al lavoro di Conte, come avevamo promesso abbiamo riacquistato centralità nel Mediterraneo”, esulta Luigi Di Maio. “L’Italia torna centrale dopo anni di servilismo, bravo Conte!”, gli fa eco il collega vicepremier Matteo Salvini.
Parole altisonanti, che si riflettono nell’entusiasmo di uno dei protagonisti dell’iniziativa diplomatica italiana, l’inviato per la Libia delle Nazioni Unite Ghassan Salamé: “Palermo è stata un successo, una pietra miliare nel cammino della Libia”. Toni trionfalistici giustificati dalla stretta di mano a favore di telecamera tra i leader dei due poteri rivali che si contendono il controllo del Paese, il capo dell’esecutivo tripolino Fayez al-Serraj e quello dell’Esercito Nazionale Libico, Khalifa Haftar.
“Non si cambia cavallo mentre si attraversa il fiume”, ha confidato Haftar al primo ministro Giuseppe Conte, regista della Conferenza. È il segnale che tutti, a Palermo, si attendevano. L’uomo la cui presenza nel capoluogo siciliano è stata in sospeso fino all’ultimo minuto accetta che il suo acerrimo nemico dell’Ovest conservi lo scettro del potere fino a nuove elezioni. La disponibilità di Haftar è l’indicatore che marca la differenza tra un flop e la vittoria. Il governo italiano ha avuto la meglio sugli attriti di una realtà fatta di lacerazioni e di scontro frontale tra opposte rivendicazioni.
Non è tutto oro ciò che luccica, naturalmente. Al ritratto libico di famiglia concesso da Haftar fa da contraltare il rifiuto della delegazione della Cirenaica di sostenere, durante la sessione plenaria che conclude la due giorni di Palermo, la dichiarazione finale. Una tensione drammatizzata dalla vistosa assenza di Haftar, che lascia la Sicilia in anticipo, fermo nel suo rifiuto di sedersi allo stesso tavolo occupato dagli odiati esponenti della Fratellanza Musulmana e dai rappresentanti dei governi nemici di Turchia e Qatar.
L’intesa raggiunta ieri deve dunque fare i conti con la reiterazione del gioco delle parti che impedisce di accorciare le distanze, che restano enormi, tra il campo islamista di Tripoli e quello laico di Tobruk. Lo psicodramma libico è lo specchio di quello scontro all’ultimo sangue che è in atto in tutti i Paesi interessati dalle primavere arabe del 2011: quello tra una politica sottomessa ai diktat dell’Islam e un potere che rigetta l’ingerenza della fede nella sfera pubblica. Uno scontro di civiltà all’interno della civiltà islamica, frammentata tra istanze moderniste e retaggi conservatori, desiderio di allineamento all’Occidente da un lato e sguardo privilegiato ai partner musulmani dall’altro. Una contrapposizione radicale che una sola Conferenza, per quanto ben organizzata, non può risolvere.
Il governo italiano ci ha messo, comunque, la faccia. E, dopo aver incassato la diserzione dei principali leader occidentali, che a Palermo hanno mandato solo le seconde file, fa comunque il suo gioco. Un gioco il cui esito è in bilico fino all’ultimo. Messo di fronte al rifiuto del generale Haftar di confrontarsi con i suoi principali spauracchi, Giuseppe Conte rimedia allestendo un vertice parallelo ridotto. Vi prendono parte Haftar e Serraj, insieme al premier russo Dmitri Medvedev, al presidente dell’Egitto al-Sisi, al presidente della Tunisia Essebsi, al presidente del Consiglio Ue Donald Tusk, al ministro degli Esteri francese Le Drian, al premier algerino Ouyahia e a Salamè. Scelta apprezzata dal feldmaresciallo, che si scioglie in un’attestazione di stima verso Conte: “E’ un amico, mi fido di lui”. Spazio dunque ai fotoreporter, che immortalano la calorosa stretta di mano tra Serraj, Haftar e il premier italiano, visibilmente soddisfatto.
Chi non è soddisfatto è invece il delegato turco, il vicepresidente turco Fuat Oktay, rimasto fuori dal vertice parallelo. “L’incontro informale che si è svolto questa mattina con alcuni attori presentati come protagonisti del Mediterraneo – osserva indispettito Oktay – è un approccio molto fuorviante e dannoso al quale ci opponiamo con forza. (…) Purtroppo la comunità internazionale non è stata capace di unirsi stamattina”. Colpa, secondo Oktay, di chi ha “abusato dell’ospitalità italiana”, riferimento tutt’altro che velato a Haftar. Per il vicepresidente turco “qualsiasi incontro che escluda la Turchia” non può che dimostrarsi “controproducente per la soluzione di questo problema” perché “la crisi in Libia non sarà risolta se alcuni Paesi continuano a indirizzare il processo sulla base dei propri limitati interessi“. La Libia, ha precisato Oktay, “ha bisogno non di maggiori, ma di minori interventi stranieri” e “quelli che hanno causato le condizioni catastrofiche” nel paese “e continuano a farlo non possono aiutare a recuperare la situazione”.
Il malumore turco è però, agli occhi di Conte, una nota stonata in uno spartito convincente. A Palermo, dichiara il primo ministro alla fine della Conferenza, si sono poste “basi importanti per la stabilizzazione” della Libia perché i principali attori della crisi hanno aderito alla road map di Salamé. Un piano, osserva Conte, “largamente condiviso dagli stessi libici, insieme ad una forte coesione della comunità internazionale”. Per il premier, sarebbe naturalmente “velleitario dire che abbiamo risolto tutti i problemi, ma sicuramente è stato fatto un passo avanti nel percorso di stabilizzazione e noi ci poniamo come facilitatori, come attori di promozione delle condizioni di stabilità”.
Durante la sessione plenaria, Conte sottolinea come l’Italia, sponsorizzando il piano Salamé, abbia creato le condizioni per “sostenere il cessate il fuoco a Tripoli e facilitare le discussioni per l’attuazione dei nuovi assetti di sicurezza che abbiano come obiettivo il superamento del sistema basato sui gruppi armati (…). In questa sede la Comunità internazionale potrà anche esprimere un sostegno concreto alla creazione e al dispiegamento di forze di sicurezza regolari“. La Conferenza ha dedicato, aggiunge Conte, “grande attenzione anche alla dimensione economica. Nell’intensa giornata di lavori a livello tecnico di ieri, infatti, sono state sviluppate interessanti discussioni sulla riunificazione delle istituzioni economiche e finanziarie libiche e sulle urgenti riforme strutturali necessarie al Paese”.
Le dimensioni della sicurezza e quelle economiche erano, tuttavia, subordinate ad una convergenza sul piano politico, il punto più pressante di tutti. La Conferenza di Palermo è stata pensata in funzione del raggiungimento di un consenso su quando e come riportare i libici alle urne. Anche su questo fronte, l’iniziativa diplomatica italiana porta a casa un risultato: tutte le parti hanno convenuto sulla bontà del percorso delineato da Salamé, che prevede la convocazione di una Conferenza Nazionale all’inizio del 2019 cui partecipino tutti gli stakeholder, cui seguiranno elezioni parlamentari, una discussione sulla riforma della Costituzione e l’approvazione di una legge elettorale, quindi il voto per le presidenziali.
Salamé può dirsi soddisfatto. “Ritengo”, commenta l’inviato Onu, “che la Conferenza nazionale libica, che pensiamo di fare nelle prime settimane del prossimo anno, sia resa più facile da questa conferenza perché ho visto sostegno unanime nella società internazionale e anche per il chiaro impegno dei libici presenti. Hanno detto che verranno, mi sento più tranquillo sull’indirla e sul suo possibile successo”. Salamé, soprattutto, può tirare un sospiro di sollievo perché l’attore più riottoso di tutti, Haftar, è “pienamente coinvolto nel processo politico delle Nazioni Unite”.
Se son rose fioriranno, insomma. E nel ginepraio libico, un fiore è pur sempre un segnale di speranza, uno dei pochi in un paese senza pace e, almeno fino a ieri, senza prospettive.