Stanca di assistere alla conquista, investimento dopo investimento, prestito dopo prestito, dell’Africa da parte della Cina, l’amministrazione Trump ha lanciato giovedì la propria strategia africana, che vedrà gli Usa contrastare la penetrazione cinese nel continente iniettando miliardi di dollari in aiuti e progetti ma anche abbandonando al proprio destino Paesi come il Sud Sudan che si sono dimostrati corrotti e ingrati.
Il piano è stato enunciato dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, falco dell’amministrazione e fiduciario del presidente, che arruolandolo nel suo governo quest’anno al posto del fiacco Herbert R. MacMaster gli ha affidato il compito di mettere a punto la strategia globale che passa sotto le insegne dell’America first.
In un discorso tenuto all’Heritage Foundation, Bolton ha chiarito le linee generali del piano africano dell’amministrazione. Un piano che individua non nella povertà o nel terrorismo jihadista le minacce con cui fare i conti nel continente più disastrato del mondo, bensì nelle politiche della Cina e, in misura minore, della Russia. Paesi dietro la cui apparente generosità si cela una politica spregiudicata volta a soggiogare, condizionare, limitare la sovranità dei Paesi africani e, indirettamente, erodere l’influenza dell’America.
Secondo Bolton, Cina e Russia “stanno deliberatamente e aggressivamente orientando i loro investimenti nella regione al fine di ottenere un vantaggio competitivo sugli Stati Uniti”. La Cina, in particolare, “ricorre a tangenti, accordi opache e all’uso strategico del debito per tenere gli Stati africani ostaggio del desideri e delle domande di Pechino”.
È per contrastare questi comportamenti che gli Usa metteranno in campo un programma nuovo di zecca. Si chiama “Africa prospera”, e prevede innovative e assai liquide forme di sostegno agli investimenti americani nei Paesi africani, esortati così a vedere in esse un’alternativa sostenibile ai progetti di investimento di Pechino.
La Cina, ha osservato Bolton, non può essere considerata un partner affidabile dell’Africa. Al contrario, i suoi comportamenti predatori rappresentano un pericolo incombente per paesi che rischiano di restare ostaggio di un governo senza scrupoli. A titoli di esempio, il Consigliere ha richiamato il caso dello Zambia, che oggi deve alla Cina tra sei e dieci miliardi di dollari che non è in grado di restituire, con la Cina pronta per rifarsi a mettere le mani sulla compagnia elettrica nazionale.
Ma la spregiudicatezza cinese non è solo una spada di Damocle per l’Africa. Lo è anche per gli Usa, la cui proiezione africana si trova a fare i conti con quella cinese che insiste spesso sugli stessi territori. Basti pensare, ha ricordato Bolton, al caso di Gibuti, dove la Cina ha recentemente inaugurato la sua prima base militare all’estero, a pochi passi da quelle in cui gli Usa gestiscono le proprie operazioni di controterrorismo. Una prossimità che ha già generato scintille: qualche mese fa, i cinesi hanno preso di mira velivoli americani con fasci laser, ferendo due piloti.
L’annuncio di Bolton è già stato salutato con favore dall’establishment a stelle e strisce. Ma ha anche generato prevedibili critiche, indirizzate verso un presidente che ha usato parole non proprio benevole nei confronti degli immigrati africani che mirano a reinsediarsi in America, ma anche verso la sua consorte, Melania, il cui viaggio ad ottobre in quattro paesi africani è stato notato più per l’estroso guardaroba che per lo spirito umanitario.
L’amministrazione Trump, comunque, sembra fare sul serio. Non a caso, ha affidato il lancio della strategia africana ad un uomo, Bolton, che si è fatto le ossa al tempo di Reagan dirigendo l’agenzia umanitaria USAID. Un pedigree che non impedisce al consigliere del presidente di considerare gli aiuti come un mezzo, più che un fine. E di ritenere che, in determinati casi, essi siano del tutto inutili. L’esempio del Sud Sudan si staglia su tutti: nonostante la generosità americana, l’ultimo Paese aggiuntosi al consesso Onu dopo la secessione dal Sudan continua ad essere guidato, ha osservato Bolton, “dagli stessi leader in bancarotta” che perpetrano “orrenda violenza” e causano “immensa sofferenza” alla propria popolazione.
Sugli aiuti, dunque, l’America sarà più munifica ma anche più esigente. Bolton ha ricordato che l’assistenza americana all’Africa da parte del Dipartimento di Stato e dell’agenzia per lo sviluppo internazionale ha ammontato, per l’anno 2017, a 8,7 miliardi di dollari. Le aziende americane hanno invece investito nella regione 50 miliardi di dollari. Sono cifre ancora non in grado di reggere il confronto con l’ingente flusso di denaro proveniente dalla Cina: la Ong Aiddata calcola che, tra il 2000 e il 2014, i finanziamenti cinesi in Africa abbiano raggiunto l’ammontare record di 121,6 miliardi di dollari.
Solo il 40% del denaro cinese, però, può essere rubricato come aiuto, almeno secondo le definizioni dell’Ocse. Il resto si presenta sotto la forma di prestiti, gran parte dei quali rappresentati da progetti realizzati da aziende di proprietà di Pechino. Prestiti che presentano non poche condizioni, non ultimo l’obbligo di restituire le somme entro pochi anni, pratica che contrasta nettamente con quelle adottate dalla Banca Mondiale, che concede ai contraenti almeno un decennio di tempo per onorare gli accordi. Le intese raggiunte dalla Cina coi paesi africani su singoli progetti, inoltre, sono spesso oliate dalla corruzione, pratica particolarmente odiosa quanto efficace in paesi che non presentano certo i medesimi standard di democrazia dell’Occidente.
Contrastare la penetrazione cinese, insomma, non sarà semplice. Ma è in questa direzione che l’amministrazione Trump si è incamminata. E nessuno, meglio del neocon Bolton, poteva mettere la faccia su un piano ambizioso che promette di cambiare il volto dell’assistenza americana ad un continente affamato di aiuti e disposto, in cambio, anche a piegarsi alle ambizioni neocoloniali della Cina.
Marco Orioles