Che cosa ha diviso davvero Mattis da Trump? L’approfondimento di Marco Orioles
Il mondo si è ormai abituato alle sortite improvvise del presidente degli Stati Uniti e al caos che circonfonde la sua amministrazione. Ma quel che è successo nelle 48 ore trascorse tra mercoledì e giovedì supera davvero ogni immaginazione. Nel giro di due giorni, infatti, l’America trumpiana ha registrato tre clamorosi movimenti tellurici.
Si è cominciato con l’annuncio, effettuato mercoledì con un tweet presidenziale, del ritiro dei 2.000 soldati americani dislocati in Siria, e del conseguente disimpegno dalla guerra totale in corso dal 2011 per determinare gli equilibri del Medio Oriente. Il giorno dopo, il Segretario alla Difesa Jim Mattis rassegnava le sue dimissioni dopo aver tentato, invano, di convincere il presidente a revocare quella scelta avventata. Quindi, qualche ora più tardi, iniziava a circolare la notizia, confermata da varie fonti interne al governo e al Pentagono, del dimezzamento del contingente Usa in Afghanistan. In soli due giorni, va in frantumi, avviandosi in una direzione incognita, l’intera postura degli Stati Uniti su due fronti cruciali per la leadership americana nel mondo. E tutto, a quanto pare, è avvenuto per fiat dell’uomo solo al comando, incurante dei suggerimenti dei suoi consiglieri e degli interessi di lungo termine della superpotenza a stelle e strisce. Un terremoto.
Sul ritiro dalla Siria, Start Magazine ha già scritto giovedì. Si tratta, molto probabilmente, di una mossa con cui The Donald mira a risalire nei sondaggi e a uscire dal pantano di una situazione politica quanto mai difficile, dopo l’insuccesso alle elezioni di metà mandato, con il Congresso che si rifiuta di finanziare il progetto del muro con il Messico e la susseguente minaccia presidenziale di provocare uno shutdown che potrebbe paralizzare il funzionamento della macchina statale e ha già fatto crollare i titoli di Borsa. Riportare i “boys” a casa è l’asso che giaceva probabilmente da tempo nella manica del capo della Casa Bianca, che lo gioca però con una tempistica e una disinvoltura che lascia esterrefatti i suoi uomini e getta nello scompiglio l’establishment di Washington, convinto che la manovra del presidente rappresenti un salto nel buio oltre che – visto che a farne le spese saranno gli alleati curdi, che si sono battuti valorosamente contro l’Isis e vengono ora ricambiati vendendoli al Sultano – un atto immorale.
Troppo, per Mattis, fedele esecutore di una politica mediorientale negoziata tra sussulti e capovolgimenti. Quando ormai la notizia del ritiro delle truppe era di dominio pubblico, l’ex generale dei Marines, veterano di tre guerre che gode della stima e del rispetto di tutto il mondo politico americano, decide di scrivere la sua lettera di dimissioni e, tenendola in tasca, si presenta alla Casa Bianca per parlare col suo capo in un tentativo in extremis di ribaltare la situazione. Sono 45 minuti di duro faccia a faccia, confermato da una fonte governativa sentita dall’Associated Press, in cui si consuma lo strappo definitivo. Di fronte alla volontà di Trump di tirare diritto, Mattis fa l’unica scelta possibile, ufficializzando le sue dimissioni che vengono annunciate prima da Trump, con un tweet lanciato alle 17:21 di venerdì in cui si rende noto che il Segretario alla Difesa “va in pensione”, e poi dal Pentagono, che alle 17:30 – nove minuti dopo il cinguettio di Trump – diffonde la lettera del capo del Pentagono smentendo clamorosamente il tweet del commander in chief.
La lettera mette a nudo, inequivocabilmente, il solco che si è creato tra il presidente ed il suo ministro. Che va ben al di là della questione siriana, che è stata solo la fatidica ultima goccia. La vera ragione che ha spinto Mattis ad alzare i tacchi è la divergenza con la Casa Bianca sul ruolo degli Usa nel mondo, sullo stile di leadership che si addice alla superpotenza egemone, sulla missione che gli Usa hanno in un pianeta nel quale si è intensificata la competizione strategica con paesi ostili come Cina e Russia, e soprattutto sulla rete di alleanze che l’America ha tessuto a partire dal secondo dopoguerra.
Nella lettera dell’ex segretario, la parola “alleati” appare, sintomaticamente, più volte. ”Mentre gli Usa rimangono la nazione indispensabile nel mondo libero”, scrive Mattis, “non possiamo proteggere i nostri interessi o svolgere quel ruolo efficacemente senza mantenere forti alleanze o mostrare rispetto a quegli alleati”. “È chiaro”, aggiunge, “che Cina e Russia, per esempio, vogliono dare forma al mondo in modo compatibile con il loro modello autoritario – guadagnando un potere di veto sulle decisioni economiche, diplomatiche e di sicurezza di altre nazioni – per promuovere i loro interessi a spese dei loro vicini, dell’America e dei nostri alleati”. Quindi, prosegue l’ex Segretario, “la mia visione sul trattare gli alleati con rispetto e sull’essere vigilanti nei riguardi sia di attori maligni e competitori strategici è fortemente radicata e si basa su oltre quattro decenni di immersione in queste tematiche”. Ecco, dunque, la conclusione: “Poiché lei ha il diritto di avere un Segretario alla Difesa le cui visioni sono meglio allineate con le sue su questi ed altri temi, credo sia giusto per me dimettermi dalla mia posizione”.
L’uscita di scena di Mattis era, comunque, nell’aria da tempo. E non solo perché questo è il destino di tutti i protagonisti del reality show trumpiano, che in questi due anni si è celebrato all’insegna di licenziamenti in tronco e di voltafaccia. Per Mattis, la misura era colma da tempo. Il dissenso del capo del Pentagono era palese su più dossier: dalla decisione di Trump di impedire ai transgender di servire nell’esercito, alle intemerate del presidente sulla Nato “obsoleta”, al trattamento rude di alleati e partner, alla balzana idea del tycoon di organizzare una costosa parata militare nella capitale, fino allo schieramento, fortemente voluto da The Donald, di migliaia di soldati al confine col Messico per bloccare la carovana di migranti partiti dall’America centrale. Scelte che Mattis ha incassato a fatica, cercando di ostacolarle con il paravento della burocrazia del Pentagono, accumulando un disagio che è esploso, irreparabilmente, dopo l’annuncio del ritiro dalla Siria, l’ultima provocazione che ha spinto il generalissimo a staccare la spina.
Grande è il disorientamento, il rammarico e l’ira del mondo politico a stelle e strisce, che guardava a Mattis come “l’adulto nella stanza” capace di bilanciare, con la sua esperienza e l’equilibrio di un uomo abituato a misurarsi con la vita e la morte di decine di migliaia di uomini e donne schierati al fronte, l’imprevedibilità di un presidente che non ha mai ricoperto alcun incarico pubblico prima di sedersi nello Studio Ovale. Con Mattis fuori dai giochi, finisce anche l’epopea dei ministri-generali, liquidati uno dopo l’altro: non c’è più Michael Flynn, licenziato un mese dopo l’insediamento per aver mentito sui suoi rapporti con l’ex ambasciatore russo in America; identica sorte l’ha patita il suo successore Herbert R. McMaster, sostituito questa primavera con l’uberfalco neocon John Bolton; è in partenza anche John Kelly, il capo di gabinetto entrato in carica con la mission impossibile di riportare ordine nell’anarchia della Casa Bianca. Ora non c’è più nemmeno Mattis, e con lui scompaiono gli ultimi argini all’irruenza trumpiana. Auguri.
Marco Orioles