L’approfondimento di Marco Orioles su modi, portata ed effetti delle ultime mosse del presidente americano, Donald Trump, in Siria
Si deve ad un servizio di Reuters pubblicato ieri la spiegazione del mistero che ossessiona gli americani e non solo da una settimana a questa parte: l’origine della decisione con cui Trump, ritirando le truppe dalla Siria, ha messo a soqquadro la politica americana in Medio Oriente, scaricando gli alleati curdi, delegando alla Turchia il compito di concludere le operazioni militari contro i rimasugli dello Stato Islamico e lasciando campo libero alle forze di Damasco, Teheran e Mosca, sancendo di fatto la loro vittoria definitiva sul fronte della guerra civile siriana.
Tutto scaturisce da, ebbene sì, una telefonata, quella intercorsa il 14 dicembre tra Donald Trump e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Una conversazione che, in origine, avrebbe dovuto vertere sulla minaccia di Ankara di invadere la porzione di Siria in mano alle milizie curde dell’YPG, alleate degli Stati Uniti. Il compito del capo della Casa Bianca doveva essere quello di ammonire il collega turco. Invece, come ha rivelato a Reuters una fonte turca al corrente della telefonata tra i due presidenti, The Donald ha avuto una trovata delle sue.
Ha chiesto a Erdogan: “Se ritiriamo i nostri soldati, potete voi ripulire l’Isis?”. Rimasto di sasso per la domanda imprevista, il sultano ha risposto che il suo esercito sarebbe stato senz’altro all’altezza del compito. Al che il presidente Usa ha replicato seccamente: “Allora fatelo”. Quindi, rivolgendosi al suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, anch’egli in collegamento con Ankara, gli ha detto: “Comincia a lavorare al ritiro delle truppe Usa dalla Siria”.
Così, in uno scambio di battute durato pochi secondi, l’approccio americano al più intrattabile dei problemi di politica estera è stato capovolto, con grande sorpresa di tutti e per lo scorno dei curdi, che fino a quel momento avevano fatto affidamento sulla presenza delle truppe Usa per scongiurare un’invasione turca e conservare il controllo sul 30% della Siria strappato prima al regime di Damasco e poi ai tagliagole islamisti.
“Devo dire”, ha confessato a Reuters un’altra fonte turca, che quella di Trump “è stata una decisione inattesa. La parola ‘sorpresa’ è troppo debole per descrivere la situazione”. Ma ad essere stati colti di sorpresa, anzitutto, sono stati i consiglieri e gli aiutanti del presidente degli Stati Uniti, in primis il Pentagono, che aveva concepito la presenza dei duemila soldati scelti in Siria com un impegno a lungo termine, finalizzato sia a portare a compimento lo sradicamento dello Stato Islamico, sia a contenere la proiezione nel Levante dell’Iran. Una strategia fatta a pezzi dalla telefonata di Trump, in una drammatica quanto repentina torsione della politica americana che ha spinto il Segretario alla Difesa Jim Mattis a rassegnare seduta stante le dimissioni, seguito quarantott’ore dopo dal responsabile della Coalizione Globale contro l’Isis Brett McGurk.
La decisione di Trump ha messo in moto una catena di conseguenze che stanno diventando visibili proprio in queste ore. Rimasti senza protezione, i curdi hanno pensato bene di chiedere soccorso al presidente siriano Assad, che ieri ha fatto muovere le sue truppe schierandole nella periferia di Manbij, ossia proprio laddove i soldati turchi e le milizie siriane alleate di Ankara si erano posizionati in previsione di un’offensiva. Che si sia trattato di una mossa concertata tra YPG e il regime lo conferma un comunicato dei curdi, secondo il quale la presenza delle truppe di Damasco era necessaria per prevenire “un’invasione turca”. Il problema è che, a Manbij, ci sono anche gli americani, in un ingolfamento militare che rischia di provocare incidenti indesiderabili. È anche per scongiurare sviluppi imprevisti che oggi a Mosca è attesa la visita dei ministri degli Esteri e della Difesa della Turchia, chiamati a concertare con la Russia i passi da fare per riempire, senza provocare sconvolgimenti, il vuoto lasciato dall’imminente uscita di scena dei fanti americani.
Russia e Iran, frattanto, hanno salutato con favore lo schieramento delle forze di Damasco a Manbij. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, lo ha definito “un passo positivo” che contribuirà alla stabilizzazione dell’area, mentre Teheran ne ha parlato come di un “grande passo” propedeutico alla reimposizione dell’autorità di Damasco su quella porzione di Siria che da tempo era fuori dal suo controllo. Russia e Iran sono d’altra parte i maggiori beneficiari del disimpegno Usa dall’area, che adesso diventa una loro personalissima riserva di caccia.
Bisogna vedere, a questo punto, cosa farà la Turchia. Anche se i colloqui odierni di Mosca saranno decisivi, è molto probabile che la minaccia di un’offensiva anti-curda, annunciata con grande fanfara qualche settimana fa, sia stata disinnescata. L’obiettivo di Ankara, d’altra parte, era di mettere in sicurezza i territori confinanti che i curdi controllano da due anni, scacciandone gli occupanti: manovra che non sarebbe più necessaria se, in quei territori, dovessero posizionarsi le armate di Bashar al-Assad.
Decisamente più incerti, invece, gli scenari per i curdi. Se anche dovessero evitare il flagello di un’invasione turca, mettendosi sotto l’ala protettiva di Assad rischiano di passare dalla padella alla brace. Fonti del governo di Damasco citate dall’Associated Press hanno fatto capire che, mentre è senz’altro benvenuta la decisione dell’YPG, è del tutto esclusa la concessione ai curdi di poteri autonomi nella cornice del ricomposto Stato siriano, ossia proprio quell’obiettivo a cui avevano lavorato e per cui hanno combattuto in tutti questi anni.
In attesa degli sviluppi dal fronte, una cosa la possiamo affermare con certezza: mai telefonata presidenziale fu più esplosiva.
Marco Orioles