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Tutte le tensioni interne all’Iran alla base delle dimissioni di Zarif “l’americano”

Pubblicato il 27/02/2019 - Start Magazine

Che cos’è successo a Zarif “l’americano”?. Il nomignolo che i mai domi falchi iraniani affibbiarono anni addietro al ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif – diplomatico di lungo corso con studi negli States alle spalle e due figli nati in America, noto in Occidente soprattutto per essere stato, insieme al collega Usa John Kerry, uno degli architetti dell’accordo nucleare del 2015 – fornisce più di un indizio per risolvere il mistero delle sue clamorose dimissioni, arrivate improvvisamente lunedì pomeriggio.

Zarif sceglie Instagram, il social delle immagini tanto amato dai giovani anche del suo Paese, per annunciare la sua uscita di scena. Lo fa con un’icona stilizzata di Fatima, la figlia del profeta Maometto di cui si festeggia in questi giorni il compleanno, corredata da un breve testo nel quale il ministro esprime riconoscenza “al caro e onorato popolo iraniano per gli ultimi 67 mesi” nei quali ha avuto l’onere, più che l’onore, di rappresentare la Repubblica Islamica nell’arena internazionale, e si scusa “”per l’incapacità di continuare a servire” in quel ruolo “e per tutte le mancanze durante il servizio”.

Già pochi minuti dopo la pubblicazione del post, rimbalzava ovunque a Teheran e dintorni la notizia delle dimissioni di una delle figure più rappresentative del fronte politico moderato e riformista che, in Iran, si batte – tra le altre cose – per il dialogo con l’Occidente e che conquistò una significativa vittoria nel luglio 2015 con il varo del JCPOA, il patto nucleare firmato dalla Repubblica Islamica insieme alle potenze del P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania più l’Unione Europea). Ed è proprio al JCPOA che bisogna guardare per comprendere il destino del suo principale artefice. Di quell’uomo cioè che grazie al suo fluente inglese, ad una cultura cosmopolita, all’affabilità e alle indiscusse doti diplomatiche riuscì ad entrare in sintonia con la controparte americana, ossia con il Segretario di Stato di Barack Obama John Kerry, che nel giro di due anni incontrò per almeno 50 volte. E a raggiungere con lui un traguardo tutt’altro che scontato: un accordo che, in cambio del temporaneo congelamento del programma nucleare della Repubblica Islamica, portò alla caduta delle sanzioni internazionali che avevano strangolato l’economia iraniana e ad una sostanziale riabilitazione dell’Iran nell’arena mondiale.

Un futuro radioso sembrò schiudersi, allora, per l’ex paria e nemico storico degli Stati Uniti. Se questi ultimi, infatti, accettavano di archiviare il contenzioso con l’Iran su quel programma atomico che Washington, insieme a Gerusalemme, aveva denunciato come una delle più gravi minacce alla sicurezza del mondo, nulla pareva più impossibile. Di tale distensione, il primo beneficiario sarebbe stata proprio la Repubblica Islamica, che senza la scure delle sanzioni poteva finalmente tessere proficue relazioni commerciali con l’Occidente – precipitatosi nel frattempo in Iran con il proprio blocchetto degli assegni – ed avviarsi sulla strada di quello sviluppo economico reclamato a gran voce da una popolazione sempre più insofferente nei confronti dell’isolamento cui il Paese era stato condannato dall’intransigenza ideologica dei rivoluzionari.

Come sia andata a finire, questa scommessa, è cronaca di questi ultimi mesi. Mesi nei quali le promesse del 2015 sono sfiorite dinanzi alla caparbia volontà di Donald Trump di cancellare l’eredità del suo predecessore Barack Obama, cominciando proprio con quello che il presidente afroamericano considerava il suo maggior risultato in politica estera: il JCPOA. Un accordo che l’irruente capo della Casa Bianca cancellò nel maggio dell’anno scorso, reintroducendo il devastante pacchetto di sanzioni bilaterali e secondarie che hanno ora il compito, tra le altre cose, di azzerare l’export energetico dell’Iran. Uno smacco per tutti, ma soprattutto per l’uomo che tanto si spese quattro anni fa per far maturare la svolta: Mohammed Javad Zarif.

Confermate poco dopo la pubblicazione del post Instagram dal portavoce del Ministero degli Esteri, Abbas Mousavi, le dimissioni di Zarif atterrano con il botto sulla scrivania del presidente Hassan Rouhani, che condivide con il suo (ex?) collaboratore l’anelito a migliori rapporti con l’Occidente. Ma Rouhani, a quanto pare, non pare intenzionato ad accettarle. Ieri il suo chief of staff, Mahmoud Vaezi, ha “negato risolutamente” su Twitter che il presidente le abbia accettate. Non pago, Vaezi ha aperto il suo profilo Instagram e reso nota la “soddisfazione” di Rouhani e del “popolo iraniano per le sagge ed efficaci posizioni e il lavoro del Dr. Zarif”. Alcuni parlamentari riformisti, nel frattempo, hanno indirizzato al presidente una lettera in cui gli chiedono di far desistere il suo ministro.

Spunta, nel frattempo, una teoria che metterebbe a nudo le vere ragioni del gesto di Zarif. Come spiegano le ben informate fonti di Al-Monitor, il ministro avrebbe espresso la propria “indignazione” per essere stato escluso dagli incontri che hanno avuto luogo lunedì a Teheran con un ospite illustre: il presidente siriano Bashar al-Assad. Zarif non è presente né al meeting di Assad con la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, né a quello tra il capo del regime di Damasco con Rouhani. In ambedue le circostanze, fa bella mostra di sé invece la nemesi di Zarif: il generalissimo della forza al Qods, divisione estera dei temibili Guardiani della Rivoluzione, Qasem Soleimani. Dinanzi alla rappresentazione plastica del suo esautoramento dal più importante dossier di politica estera dell’Iran, le relazioni con l’alleato di ferro siriano, Zarif sbotta e, al sito di informazione Entekhab, confida la sua rabbia per non avere più “credibilità nel mondo”.

Non sappiamo, al momento, se le dimissioni di Zarif diventeranno effettive. Come abbiamo detto, Rouhani non pare muoversi in questa direzione, e il suo placet è necessario. Per alcuni, il gesto del ministro andrebbe letto come un roboante messaggio politico, volto a scuotere le acque di Teheran intorbidate dalle manovre dei suoi avversari conservatori. Questi ultimi, infatti, hanno ripetutamente preso di mira il ministro, chiedendogli conto e ragione del fallimento del processo negoziale con l’Occidente. Il ragionamento dei falchi è, ridotto all’osso, molto semplice: Zarif non può restare al suo posto dopo che la scommessa di rinunciare all’atomica in cambio dei proventi del commercio con l’Occidente si è rivelata perdente. La crisi economica che da oltre un anno attanaglia l’Iran e scuote le piazze del Paese promette sfracelli, e Zarif è chiamato a pagarne il prezzo.

La portata e le conseguenze della mossa di Zarif sono state approfondite da Francesca Manenti del Centro Studi Internazionali. Per l’analista del CESI, “il passo indietro di Zarif ha posto il Presidente Rouhani di fronte al rischio di perdere non solo uno dei pilastri dell’esecutivo, ma anche uno dei simboli di quella politica di apertura e riconciliazione con l’occidente di cui il Ministro degli Esteri è stato il volto negli ultimi sei anni”. Se cade il ministro, insomma, cadrebbe l’intero approccio del governo, la sua impostazione dialogante, vanificando in un colpo solo tutti gli sforzi fatto per ridurre gli storici attriti nelle relazioni con l’Occidente.

Se Rouhani accettasse le dimissioni del suo ministro, uscirebbe di scena – osserva ancora Manenti – il fautore “della costruzione del delicato processo di riavvicinamento alla Comunità Internazionale, sugellato dalla firma del Joint Comprehensive Plan of Action”. Con lui, verrebbe meno “il principale interlocutore dei partner internazionali, in particolare di Stati Uniti e Paesi europei”, che tanto si adoperò per “trovare tutti i possibili punti di convergenza da cui partire per distendere definitivamente i rapporti internazionali e porre termine a quell’isolamento politico ed economico di cui era stato oggetto l’Iran nei decenni precedenti”.

In quanto principale architetto del JCPOA, Zarif è stato – nota Manenti – il protagonista del tentativo della Repubblica Islamica di “rivitalizzare le asfittiche condizioni in cui versava l’economia interna”. Infatti, “i prospettati benefici per il Paese” derivanti dall’adesione all’accordo “sono sempre state le principali motivazioni con le quali il Presidente Rouhani ha cercato di giustificare con le componenti più conservatrici della Repubblica Islamica l’ampio margine di manovra concesso al Ministero degli Esteri nel condurre le trattative”.

La dialettica interna tra ala riformista e moderata e fronte conservatore è imprescindibile per capire la partita giocatasi in Iran prima e dopo il negoziato con l’Occidente. “La conclusione dell’accordo nucleare e la ripresa, seppur lenta, degli scambi commerciali tra Iran e resto del mondo, in particolare con l’Europa” – sottolinea Manenti – “era stata (…) salutata dall’esecutivo come un’importante vittoria” che gli avrebbe permesso di “consolidare il proprio margine di consensi interno”. Ma quella vittoria è naufragata davanti al ripudio americano del JCPOA e alla reintroduzione delle sanzioni. Due mosse che, nota Manenti, hanno “creato un notevole danno reputazionale per l’esecutivo Rouhani, colpevole davanti all’elettorato e alla classe politica iraniana di aver dato fiducia ad una negoziazione che non ha portato ad un nulla di fatto”. Di qui il “drastico calo di consensi per la compagine di governo” e l’offensiva dell’opposizione conservatrice, “pronta a cavalcare la nuova ondata di antagonismo proveniente da Washington per riprendere il controllo del processo decisionale nella Repubblica Islamica”.

È l’eterno braccio di ferro tra falchi e colombe, il pendolo che oscilla ora da una parte ora dall’altra, che ha schiacciato Zarif, prima vittima illustre dell’attuale prevalere in Iran del campo intransigente su quello del dialogo. La sua dipartita, se confermata, non può che rappresentare una pessima notizia per chi, negli ultimi anni, aveva sperato in un nuovo corso nei rapporti con la Repubblica Islamica. È una sconfitta per Barack Obama e John Kerry, anzitutto, le cui strette di mano con Zarif ebbero un enorme portata simbolica. E, forse, anche per Donald Trump. La cui politica di “massima pressione” nei confronti dell’Iran travolge proprio “Zarif l’americano”.

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