L’approfondimento di Marco Orioles sulla Libia con le valutazioni del coordinatore del desk Medio Oriente e Nord Africa dell’Agenzia Nova, Alessandro Scipione
Che cosa sta succedendo in Libia? Difficile rispondere, considerato il dimenticatoio in cui è caduta una guerra, quella lanciata dal generale Haftar contro i suoi avversari di Tripoli lo scorso 4 luglio, la cui gravità è tuttavia conclamata, tra morti, feriti e un numero crescente di sfollati presi in mezzo al fuoco incrociato.
Per colmare le lacune di una informazione colpevolmente intermittente, e cercare di capire cosa stia succedendo nella nostra ex quarta sponda, Start Magazine si è rivolto ad una nota agenzia di stampa, Agenzia Nova, che segue specificamente e con costanza le vicende del Medio Oriente allargato, con una finestra sempre aperta sul dossier Libia.
Dal nostro interlocutore, il coordinatore del desk Medio Oriente e Nord Africa Alessandro Scipione, abbiamo colto anzitutto il dato di partenza della nostra ricostruzione: l’offensiva di Haftar, spiega, “ha ormai ceduto il passo ad un vero e proprio stallo militare. L’offensiva doveva infatti durare pochi giorni e invece, tra poco, saranno passati quattro mesi”.
Quattro mesi nei quali però i contendenti se le sono date di santa ragione, come conferma Scipione ricordando che “il bilancio delle vittime è a dir poco grave: stiamo parlando di mille morti e almeno cinquemila feriti. Si tratta di dati allarmanti anche perché emergono nel contesto di un conflitto a bassa intensità che viene combattuto con poche migliaia di combattenti sul campo dall’una come dall’altra parte”.
Lo sproporzionato numero di vittime è tuttavia comprensibile se evidenziamo, con l’aiuto di Scipione, che “quei miliziani, dell’una e dell’altra parte, hanno ricevuto un forte supporto dall’esterno, con rifornimenti di armi e soprattutto aerei. Questa deve dunque essere inquadrata come una guerra per procura, in cui a confrontarsi sul suolo libico sono le grandi potenze sunnite, impegnate in un conflitto molto esteso che va ben oltre la Libia. Nel caso specifico della Libia, si stanno scontrando da una parte il campo di Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto che sostiene le forze del generale Haftar, e dall’altra parte quello della Turchia e del Qatar che supporta il Governo di Accordo Nazionale e le milizie affiliate a Tripoli.”
Tutto questo, naturalmente, non ci suona nuovo. L’unico elemento di relativa novità, nella questione di chi sostiene chi e come, riguarda il ruolo della Francia, smascherato il mese scorso quando – ricorda ancora Scipione – “durante l’offensiva, alcuni combattenti di Sarraj hanno scoperto a Gharyan dei missili Javelin di fabbricazione Usa che, come ha fatto emergere un’inchiesta del New York Times, erano stati venduti alla Francia e poi non si sa bene come siano finiti in mano alle forze di Haftar. Le giustificazioni date dal Ministero della Difesa francese sono state lacunose e il Governo di Tripoli infatti le ha giudicate insufficienti. Quindi, anche se il caso non è risolto, mi pare evidente che la Francia stia offrendo un sostegno ad Haftar”.
La scoperta della manina di Parigi risulta ad ogni modo, oltre che poco sorprendente, tardiva. “L’appoggio francese ad Haftar – sottolinea infatti Scipione – era già emerso chiaramente ai tempi dell’operazione Dignità lanciata nel 2014 da Haftar allo scopo di liberare Bengasi e tutta la Cirenaica da quello che loro chiamano terrorismo. Durante quell’operazione, tre uomini delle forze speciali francesi che stavano sorvolando la zona in elicottero sono stati uccisi da miliziani delle Brigate di Difesa di Bengasi, un gruppo terroristico che allora stava combattendo contro Haftar. Un episodio che dimostrava già allora come l’impegno francese in favore dell’Esercito Nazionale Libico fosse conclamato”.
Se la situazione è questa, ed è una situazione ingarbugliata, quali vie di uscita si intravedono? Dopo un’iniziale esitazione, Scipione ci offre l’unica risposta realistica: “la situazione”, spiega, “difficilmente si potrà sbloccare senza un intervento della comunità internazionale. Ma sulla volontà di quest’ultima di fare qualcosa nutro molti dubbi”.
Eppure, precisiamo noi, iniziative diplomatiche non sono mancate, a partire dal comunicato congiunto di due settimane fa con cui sei Paesi, tra cui gli Usa e l’Italia, hanno chiesto un immediato cessate il fuoco e la ripartenza del processo di pace mediato dalle Nazioni Unite. “Questi sei paesi – aggiunge opportunamente Scipione – si sono riuniti a Roma diverse volte, anche in presenza dell’inviato dell’Onu Ghassam Salamè. È da aprile che si è formato il gruppo cosiddetto del P3+3, che comprende il gruppo dei tre membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu più altri tre paesi”.
Peccato che l’operato di questi ambasciatori di buona volontà rappresenta, come si direbbe a Napoli, solo un modo per fare ammuina. “Devo dire infatti”, osserva Scipione, “che le condanne all’escalation in Libia venute da Paesi come la Francia stridono con i comportamenti opposti tenuti nella stessa Libia. Mentre da un lato si chiede di deporre le armi dall’altro si forniscono armi”.
Che fare, dunque? Per Scipione, “ci vorrebbero azioni forti, la più importante delle quali sarebbe l’istituzione di una no-fly zone. Secondo me è fondamentale fermare i raid aerei perché la guerra in questo momento viene condotta soprattutto attraverso bombardamenti aerei”.
Un simile passo, tuttavia, richiederebbe un voto formale del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e senza che nessuno opponga il veto. Ci sono le condizioni oggi per fare quello che si fece nel 2011, con le conseguenze peraltro che sono sotto gli occhi di tutti?
La risposta di Scipione è che “al momento, queste condizioni non ci sono. Ma qualcosa sta cambiando. L’offensiva, ricordiamolo, doveva durare poco e invece si sta protraendo. L’impressione è che ci sia una certa stanchezza da parte di tutti gli attori, sia da parte dei due contenenti libici, Haftar e Sarraj, sia degli sponsor internazionali. E poiché questa situazione non può andare avanti per decenni, bisognerà in qualche modo sbloccarla”.
Forse, chiediamo, una presa di posizione decisa da parte degli Usa potrebbe fare la differenza? Scipione sembra non crederci, e spiega perché. “Se si vuole cercare di capire come si muoverà il Consiglio di Sicurezza, bisogna valutare bene il comportamento degli Usa. Sinora, il Consiglio ha emesso solo una dichiarazione di condanna del raid aereo al centro di detenzione per migranti del mese scorso, e una richiesta di cessate il fuoco che però non era accompagnata da alcun meccanismo di enforcement. Il Consiglio quindi si è mosso tardi e poco. E ciò si deve soprattutto alla riluttanza degli Usa, sul cui ruolo molto si è speculato”.
La condotta degli Usa nella vicenda libica, per Scipione, appare come minimo contraddittoria. “Basti pensare – sottolinea – alla famosa telefonata fatta da Trump ad Haftar, che fu definita un endorsement del presidente Usa al generale. Peraltro conviene non dimenticare che Haftar ha passaporto statunitense, avendo vissuto per molti anni in una zona vicina al quartier generale della Cia a Langley”.
E l’Italia? Come si sta muovendo il nostro paese in una situazione che intricata è dir poco? Malissimo, secondo Scipione. “Abbiamo infatti due linee. Da una parte quella del presidente del Consiglio Conte, dall’altra quella del ministro Salvini. Nel comunicato che fece uscire Salvini dopo l’incontro con il ministro degli Interni libico, fu usato un linguaggio molto chiaro, che definiva le operazioni militari di Haftar come un’aggressione vera e propria. Mentre il presidente Conte e il ministro deglI Esteri Moavero ritraggono Haftar come attore imprescindibile per il dialogo. Sono ovviamente due linee inconciliabili. O Haftar è un aggressore, e quindi va trattato come tale, oppure è un attore con cui bisogna dialogare”.
La conclusione di Scipione è presto detta: “Sarebbe opportuno che l’Italia avesse una posizione univoca. E non solo sulla Libia, ma su tutto”.