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Il primo anniversario del califfato: intervista a Carlo Panella

Pubblicato il 30/05/2015 - E-paper

Carlo Panella, tra pochi giorni ricorrerà il primo anniversario della nascita del Califfato in Siria ed Iraq. Qual è il bilancio dei primi dodici mesi di questa esperienza politica, religiosa e militare che sta devastando un’intera regione e che nessuno sembra in grado di fermare?

Il bilancio è disastroso per l’Occidente. Basta misurare le forze, le vittorie militari e la popolazione su cui il Califfato esercita la sua sovranità, e soprattutto l’elemento più grave, la capacità del Califfato di riscuotere consenso, che si sono moltiplicate in questi dodici mesi. Tutto ciò mentre l’Occidente ha dimostrato di essere semplicemente vuoto, privo di idee, tranne quella idiota di mandare quattordici aerei al giorno a bombardare qui e là, facendo più danni che altro. A proposito di forze, le stime fatte dalle intelligence occidentali, a partire dalla CIA, valutano in circa trentamila i miliziani dell’ISIS. Come si spiegano i successi di una formazione militare tutto sommato così ridotta che si trova a combattere contro interi eserciti nazionali, rinforzati peraltro da vari contingenti come i volontari delle tribù sunnite e le milizie sciite, per non parlare del sostegno iraniano, attraverso i pasdaran, di quello di Hezbollah e ovviamente di quello della coalizione internazionale a guida americana che dispone della micidiale arma aerea? Le stime sui miliziani dell’ISIS sono in realtà inattendibili. Non si sa quanti siano in realtà, non ci sono strumenti scientifici di valutazione. La cifra di cui si parla, trentamila uomini, si riferisce solo all’ISIS strictu sensu, cioè a chi sta combattendo in Mesopotamia. Se noi andiamo a contare gli affiliati di questo brand, che vanno dal Marocco all’Indonesia, le cifre si moltiplicano. Ripeto: non ci sono valutazioni numeriche attendibili, solo valutazioni pragmatiche, e queste ci dicono molto sulla capacità dell’ISIS di imporsi sul terreno. Una capacità che si impernia su due punti. Il primo è quello militare. A Ramadi l’ISIS ha dimostrato di poter mettere in campo in quarantotto ore quaranta camion blindati, ognuno con due tonnellate di esplosivo a bordo. Questo significa che c’erano quaranta persone disponibili a morire. Si tenga conto che nel Califfato ci sono le liste di attesa per chi vuole morire in attacchi suicidi. Questo significa che c’è un discorso, un’utopia terribile vicina a quella delle SS, che motiva quaranta persone a immolarsi per la causa. Se uno poi fa il calcolo relativo agli ultimi dodici mesi, arriviamo a migliaia di attacchi kamikaze. Per motivare queste migliaia di kamikaze devi necessariamente avere delle buone idee, perché questi uomini non sono pagati per morire. La loro morte è il frutto di un miraggio, di un ideale, della società ideale e dell’uomo nuovo proposti dal Califfato. Questo è il secondo punto di cui parlavo e che rappresenta il vero problema, oltre che la parte più inquietante del Califfato. Il problema è che, dopo ogni conquista da parte dell’ISIS, scappate le prime migliaia di persone che hanno ottimi motivi per temere per la propria vita o per le persecuzioni -­‐ i cristiani, gli yazidi, gli sciiti, e anche i sunniti che temono questa ondata totalitaria, questa onda nera -­‐ rimane la gran parte della popolazione. Questa non è più andata via. Ed è questo l’elemento preoccupante: il fatto che queste persone rimangono, non votano coi piedi. A loro in qualche modo questo regno del terrore, basato sulla schiavitù e sullo stupro, piace. E so bene perché piace. Piace perché garantisce l’assistenza, il welfare. Ci sono le università aperte a Mosul, con delle regole naturalmente atroci ma sono aperte. Funzionano gli ospedali, addirittura ne hanno aperto uno a cinque stelle. C’è una vita normale nel Califfato, con una differenza rilevante però rispetto al quadro generale del Medio Oriente: non c’è corruzione, perlomeno per ora. C’è stato un unico testimone occidentale che è andato a visitare il Califfato, precisamente nella sua capitale, a Raqqa. È un ex parlamentare tedesco che ha fatto un patto con i miliziani, che gli hanno garantito l’incolumità. Quando è tornato, ha detto che l’Occidente non si rende minimamente conto del pericolo rappresentato dal Califfato e proprio per questa ragione, perché la vita dentro i suoi confini continua e con un grande consenso.

L’avventura del Califfato non solo prosegue, ma si sta espandendo. Sono trenta attualmente i “wilayat”, le province del Califfato, venti delle quali in Siria ed Iraq, mentre dieci sono distribuite nel resto della mezzaluna islamica, in Medio oriente, nella penisola arabica, in Asia, in Africa. Tre province sono state proclamate solo in Libia. Che cosa significa questa avanzata quasi inarrestabile?

Allargando il quadro si capisce che chi ritiene che sia tutta colpa della guerra di Bush, quella del 2003, dice una colossale stupidaggine. La verità è quella che è emersa dopo la fatua esperienza delle primavera arabe: si sta verificando una disgregazione, una implosione, una scomparsa degli stati arabi. La Siria ne è l’esempio più chiaro, soprattutto perché non c’è stato alcun intervento esterno, a parte gli aiuti militari da parte del Qatar, della Turchia, dell’Arabia Saudita, che sono andati alle milizie, ma non si dimentichi che le milizie c’erano già. Tutto quel che è successo alla Siria si è manifestato all’interno del paese: una rivoluzione fallita, la successiva guerra civile e l’inesorabile scomparsa dello stato unitario siriano. Lo stesso è successo con lo stato unitario del Libano, della Libia, dello Yemen, dell’Iraq. Anche l’Algeria rischia di dichiarare fallimento per la seconda volta nell’arco di vent’anni e, quindi, di veder ricominciare una guerra civile mai sopita. Stanno scomparendo gli stati. Le primavere arabe, che hanno fatto cadere i regimi che tenevano in piedi in maniera artificiosa questi paesi, hanno evidenziato la mancanza di gruppi dirigenti, di borghesia, di élite nazionali, di gruppi che abbiano un’idea condivisa di nazione. Questo è il contesto in cui si è manifestato lo Stato islamico: il corpo della società araba è malato, tutti i tentativi di costruire delle democrazie, delle società o comunque degli stati stanno fallendo, neanche le dittature tengono insieme questi stati. Questo è il messaggio spaventoso. E dentro questa malattia, di cui l’Occidente non si accorge, s’insinua questo cancro. Che si basa su un elemento fondamentale che affonda le sue radici nel lontano passato: la sharia, la legge coranica. Quella di stampo wahhabita, che è applicata in tutti i paesi della penisola arabica, in particolare l’Arabia Saudita, anche se con una differenza: con meno crudeltà. Va tuttavia ricordato che in Arabia Saudita se un musulmano diventa cristiano viene decapitato. Sempre in Arabia Saudita viene praticata de jure la schiavitù, la poligamia, lo stupro delle bambine legalizzato con dei matrimoni finti. Tutti gli orrori che sono posti in essere nel Califfato rispecchiano la legge coranica, sacra, in vigore da 1.500 anni. E questo è ciò che porta il consenso al Califfato. Dove si manifesta anche l’estremizzazione di un elemento fondamentale dell’islamismo, ossia il monoteismo. L’ISIS uccide i cristiani, gli sciiti e gli yazidi, esattamente come faceva Maometto nel 627, perché costoro venerano altre figure, come gli imam nel caso degli sciiti. Quindi i miliziani dell’ISIS sono crudeli e feroci e mettono in piedi scene come lo sgozzamento di ventuno copti in riva al Mediterraneo non perché praticano il terrore, ma perché vogliono mostrare all’intera comunità islamica mondiale che loro praticano il monoteismo come lo praticava Maometto. Dunque uccidono gli idolatri, coloro cioè che non praticano il monoteismo come lo intendono loro. Come dice giustamente Domenico Quirico, noi abbiamo di fronte un pensiero totalitario che si è fatto milizia e poi stato, e che parla un linguaggio conosciuto. Bisogna ricordare infatti che i totalitarismi europei del ‘900, quello nazista o il comunismo staliniano, avevano una peculiarità: sono nati in ambito laico e rappresentavano una rottura rispetto alla millenaria tradizione cristiana. L’ideologia e la prassi dell’ISIS hanno invece un fondamento religioso. Riflettendo su ciò che alimenta il fuoco che sta incendiando il Medio Oriente e non solo, si possono riconoscere vari elementi che lei ha già fatto emergere. C’è l’utopia califfale con tutta la sua aura e fascino. C’è l’applicazione della sharia nella sua versione massimalista. C’è poi il cosiddetto “takfirismo”, ossia la tendenza a delegittimare l’avversario pronunciando la micidiale accusa di apostasia, che ne giustifica la soppressione. C’è quindi, direttamente collegato, il settarismo, con particolare riguardo all’odio atavico tra sunniti e sciiti che è proprio uno dei fattori che stanno spingendo il Medio Oriente nell’abisso. La dinamica che è in atto in Medio Oriente inizia alla metà del XVIII secolo. Cioè nel momento stesso in cui l’Europa scopre, con Diderot e Voltaire, l’illuminismo, il libero pensiero, il razionalismo, l’ateismo. In cui sbocciano nel loro massimo splendore la modernità, il pensiero scientifico, la libertà, le grandi rivoluzioni politiche come quella americana. Ebbene, in quel momento nell’Hijaz, una regione oscura dell’Arabia Saudita, viene siglato un patto tra un ideologo, al-­‐Wahhab, e un piccolo capo tribale sunnita, capostipite della dinastia che regna a tutt’oggi in Arabia Saudita. Nasce così lo scisma wahhabita, che incarna la volontà di riformare radicalmente l’islam ritornando alle origini, mettendo in campo a tal fine la stessa violenza esercitata da Maometto. Questo scisma trova nel settarismo la sua bandiera principale. Il wahhabismo infatti si scatena subito contro gli sciiti rinfocolando quel contrasto che separa da millenni le popolazioni di origine iranica da quelle più vicine all’area mediterranea. I wahhabiti, che sono degli avi dell’attuale califfo al-­‐Baghdadi, ottengono un successo straordinario e arrivano a conquistare addirittura Mecca e Medina. Per riprendere le due città sante, il governatore del Cairo viene incaricato da Istanbul, capitale dell’allora califfato, di ingaggiare un jihad. Giusto per sottolineare la continuità tra il passato e il presente: nella loro lotta contro gli sciiti, i wahhabiti coinvolgono le tribù della regione irachena di Anbar, quella dove oggi impazzano le milizie dell’ISIS. Ma una svolta cruciale arriva nel XX secolo, quando questi portatori di un’ideologia barbara, crudele e settaria, si trovano sotto i piedi il petrolio. Il regno wahhabita, l’Arabia Saudita, diventa così la principale potenza islamica del pianeta. Un momento di svolta si ha poi con la rivoluzione iraniana del 1979, quando un altro movimento settario, questa volta sciita, si fa stato. Ne scaturisce una guerra di religione, che contrappone sunniti e sciiti e che esplode subito nel conflitto tra Iran e Iraq, che dilaniò il mondo islamico. In questa guerra naturalmente c’è anche una componente nazionalista, per cui ci sono due stati, Iran e Iraq, e le loro rivendicazioni di ordine materiale come il controllo geografico dello Shatt el-­‐Arab o delle risorse petrolifere. Ma sullo sfondo ci sono gli elementi assai più gravi e pericolosi che noi in Occidente non cogliamo, quelli messianici e apocalittici. Un altro elemento che si manifesta nella cornice di quel conflitto è la formidabile innovazione propinata da Khomeini: il martirio. L’ayatollah trasforma, anzi sovverte la concezione classica del martirio facendone un obbligo religioso. Per cui ora un buon musulmano, oltre a fare la preghiera, fare il ramadan, fare l’elemosina e tutti gli altri pilastri dell’islam, deve anche diventare martire. È una concezione ben diversa da quella incarnata dai kamikaze giapponesi. L’insegnamento khomeinista non riguarda come in Giappone una ristretta élite: riguarda tutti. Essa prevede che un bambino sia educato a diventare un kamikaze perché questo è lo scopo della sua vita. Questo scisma travolge qualsiasi confine interno all’islam perché coinvolge immediatamente anche il mondo sunnita. La cosa fondamentale da notare qui è che tu diventi kamikaze in quanto sei un buon fedele, perché la tua fede è salda. Ricordiamoci che l’unica spiegazione della shoah non era tanto l’esistenza di un gruppo dirigente assetato di sangue, che c’era, ma il fatto che esso aveva indicato ai tedeschi un’utopia, la possibilità di realizzare una nuova umanità riscattata che avrebbe realizzato tutte le proprie potenzialità solo nel momento in cui avesse eliminato la zavorra che frenava il suo sviluppo: gli ebrei, gli omosessuali e gli zingari. Così come c’era un’utopia nel nazismo, così c’è oggi nel Califfato.

L’innovazione khomeinista del martirio avviene in parallelo a quella che ha luogo entro il mondo sunnita, dove sono all’opera ideologi non meno estremisti come Abdullah Azzam, che nel contesto di un altro jihad, quello afghano al tempo dell’invasione sovietica, sostenne l’obbligatorietà del jihad per ogni credente ed esaltò i mujaheddin che andavano incontro al martirio, inaugurando un filone oggi molto popolare. Quella del jihadismo è dunque, a ben vedere, la sfida che abbiamo di fronte, la sfida proposta da un’ideologia capace di mobilitare le masse musulmane e a motivarle a praticare una violenza estrema. A fronte di tutto ciò, cosa pensa di quella ricca coorte di intellettuali e di attivisti del buonismo che continua a sostenere pubblicamente, nonostante le evidenti prove contrarie, che il “jihad” va inteso nel senso di “sforzo” di purificazione e non in quello di “guerra santa”, come appare invece sistematicamente nel corpus della tradizione scritta islamica, concludendone che l’islam è una religione di pace?

Penso tutto il male possibile. Il problema è che questi buonisti hanno il potere. Il capo della CIA dice questo. Federica Mogherini dice questo. Anche Cameron dice questo. Questi personaggi non vogliono capire la realtà, preferiscono chiudersi gli occhi. L’Occidente sceglie di comportarsi in questo modo perché, diversamente, si troverebbe costretto ad esercitare pressioni nei confronti dei paesi islamici affinché pongano in essere una battaglia culturale oltre che politica e militare al loro interno. La triste verità è che l’Occidente sta declinando, sta morendo a causa del suo pensiero debole, che è rappresentato dalla vacuità e dalla stupidità di quanto sta facendo Obama. Basta leggere il suo discorso del Cairo del 2009, che è stato scritto non solo da lui ma da un gruppo dirigente che si accingeva a governare l’America ma che non supererebbe nemmeno un’interrogazione di seconda media. Federica Mogherini è uguale. L’ho incontrata l’altro giorno e mi ha detto che quello dell’ISIS non è islam perché lei l’islam l’ha studiato nella sua tesi. C’è un livello di ignoranza che è spaventoso. Da qui l’incapacità di comprendere i fenomeni drammatici in corso.

L’Europa non solo non ha gli strumenti e la volontà di capire cosa sta succedendo, ma sta dando un contributo significativo alla violenza in atto nel Califfato. Mi riferisco agli oltre tremila foreign fighters partiti dal Vecchio Continente per partecipare al jihad siriano ed iracheno. L’emblema di questa partecipazione è Jihadi John, alias Mohammed Emwazi, jihadista britannico diventato il boia del califfato oltre che una star. Che cosa le suggerisce questo corto circuito delle seconde generazioni di immigrati in Europa, che nonostante siano nati e cresciuti nella patria dei diritti dell’uomo, nella civiltà della pace universale, siano stati scolarizzati insieme ai nostri figli, a un certo punto cominciano a sognare di ucciderci e lo fanno concretamente?

Il problema è che non ci sono solo i foreign fighters. Ci sono anche le ragazzine europee che corrono in Siria per andare a letto con i jihadisti. Anche loro subiscono il fascino di questa utopia. Al-­‐Baghdadi è per loro un Martin Luther King, ma all’opposto. Il suo “Io ho un sogno” non implica per i seguaci dell’ISIS cose belle e lodevoli come la lotta per l’emancipazione. Quelli dell’ISIS sono degli apocalittici assassini, schiavisti e stupratori ma che hanno dalla loro parte un grande discorso ideologico e motivazionale. Che penetra ovunque. Anche in Europa.

Cosa ci dice dei rischi che corrono le nostre città da cui sono partiti questi foreign fighters? I quali, dopo essere stati a contatto coi mujaheddin, essere stati sottoposti a un processo di iper-­‐ radicalizzazione e socializzati alla violenza estrema, torneranno qui (e in realtà stanno già tornando) con il prevedibile intento di applicare quel che hanno appreso in Siria ed Iraq? Cosa pensa in particolare dei programmi che stanno varando alcuni paesi europei per evitare di applicare esclusivamente misure repressive nei confronti di questi reduci, puntando invece ad una loro rieducazione e ad un loro graduale reinserimento sociale?

Non vedo grandi possibilità per simili programmi. Sono vani sforzi. O tu costruisci un forte polo alternativo di attrazione all’interno della tradizione musulmana che convinca questi ragazzi che tutte queste cose sono bestialità assassine, oppure qualsiasi programma è fasullo. Non c’è una specifica cura per i foreign fighters. D’altronde, se l’80% di chi ha risposto a un sondaggio di al-­‐Jazeera ha espresso il proprio sostegno per l’ISIS, questo significa solo che il Califfato è molto popolare all’interno dell’intera umma musulmana.

Peraltro il problema per noi non è nemmeno rappresentato dai foreign fighters. Il vero assillo delle nostre intelligence è costituito dai cosiddetti “lupi solitari”, ossia quei soggetti che si radicalizzano da soli su internet, senza entrare in contatto con nessuno, e poi decidono autonomamente di entrare in azione. La cosa singolare oltre che inquietante è che alcuni dei protagonisti dei colpi sferrati nelle nostre città, penso ai fratelli Kouachi che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo o ai due “soldati del Califfato” che hanno tentato di insanguinare una kermesse texana il mese scorso, erano già nel mirino delle autorità, che però non riescono a tenere tutti sotto controllo e si lasciano dunque sfuggire chi poi si presenta armi in pugno presso un determinato obiettivo. Che insegnamento dobbiamo trarne?

L’insegnamento è semplice: noi pensiamo di essere immuni da questo cancro, ma non lo siamo. Ci saranno attentati in Europa. Anche in Italia. Ci saranno degli altri fratelli Kouachi. Non c’è nessun servizio segreto che possa evitarlo. Il male è troppo radicato.

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