Il sociologo: «Ogni volta che c’è un attentato, nella nostra mente, nella nostra memoria riaffiorano le sensazioni e le paure degli attentati precedenti. Isis lo sa bene. Ogni attacco è una ferita per tutti»
Londra e Torino: unite nella notte e nella paura. Nella capitale del Regno Unito, un commando di tre terroristi piomba con un pullman sui pedoni di London Bridge, accoltella altri passanti e continua la sua azione di morte prima di cadere sotto i colpi della polizia. Il bilancio è di 7 morti (oltre ai tre terroristi) e 36 i feriti. A Torino, in una serata che doveva essere di sport e di goal bianconeri per la finale di Champions League, un petardo – in mezzo a piazza San Carlo gremita di tifosi davanti ai maxischermi – scatena il panico. “C’è una bomba”. Urla, gente che scappa, transenne investite, persone calpestate. Oltre 1500 feriti.
Che cosa collega i due fatti se non una psicosi generale per attentati terroristici?
«In queste due storie, il collante è proprio quello della paura di essere vittime di attentati. A Torino, si è scatenata una psicosi collettiva, rinvigorita dalla memoria inconscia che si stesse verificando un fatto simile a uno dei tanti accaduti in Europa di recente», ci spiega Marco Orioles, sociologo, esperto di Isis in Europa e autore di “Io ero Charlie”, libro dedicato agli attacchi di Parigi e alla sede del magazine satirico Charlie Hebdo.
«La strategia di Isis è seminare il panico, far sapere che c’è sempre, che è lei a comandare le nostre vite. Ci condiziona perché il Califfato conosce anche la fragilità e le emozioni della mente umana».
«Così ogni volta che c’è un attentato, nella nostra mente, nella nostra memoria riaffiorano ansia e della paura. Isis lo sa bene. Ogni attacco è una ferita per tutti: una ferita che però non si cicatrizza mai. Perché è ogni attentato a tenerla “fresca”. Come se si riaprisse sempre, per effetto della macabra regolarità cui Isis ci ha abituato, con ogni evento di sangue. Fateci caso: ormai ci coglie un senso di angoscia quando sentiamo di camion che si immettono su viali pedonali o di terroristi che attaccano i nostri ragazzi ai concerti delle star. Reagiamo con interrogativi che sono gli stessi, per tutti: Ancora? Ma non l’hanno finita? Ma cosa vogliano da noi?»
A Torino, questi traumi emotivi sono improvvisamente riaffiorati e hanno sopraffatto tutto e tutti. «La paura sopita ha preso il sopravvento su altre emozioni (siano esse di tristezza o di felicità) regalate dai goal fatti o subiti dalla squadra di calcio. La Juventus, la Champions non esistevano più: esisteva solo la voglia di mettersi in salvo. E’ bastato uno scoppio per innescare angosce e paure, istinti di sopravvivenza e di fuga. Si scappava, non si sapeva dove, non si sapeva da chi, ma si scappava. La folla in preda al panico è quanto di più incontrollabile e ingestibile si possa trovare. Lo studiamo in sociologia da un secolo e mezzo: il comportamento umano in una massa è soggetto a leggi di massima imprevedibilità»
Bisogna imparare e conviverci?
«Sarebbe troppo facile rispondere di non farsi prendere dal panico, in queste occasioni. Ma l’irrazionalità è più forte della cognizione. E del comportamento ponderato. C’è tuttavia un dato matematico, che dovrebbe tutti imporci una riflessione. E’ più probabile che ci capiti un incidente in auto, che essere vittime di un attentato Isis. Eppure: nessuno di noi rinuncia ad andare in auto. Dobbiamo fare come abbiamo sempre fatto: dobbiamo continuare ad andare ai concerti, a camminare sui viali pedonali, dobbiamo perfino spronare a mandare i nostri figli all’estero a studiare. Modifichiamo le nostre abitudini per paura? Allora così l’avranno vinta loro, i terroristi del Califfato. Tutta pubblicità per fare nuovi proseliti. Isis è ormai una parte quotidiana della nostra esistenza in Europa, purtroppo. Non dobbiamo permettergli di condizionarci», afferma il sociologo.
Esiste una soluzione?
«Il Pentagono la sta studiando: sta cercando un piano per mettere la parola fine a tutti questi attentati. Come? Sradicando Isis ovunque. Non solo da Iraq e Siria ma da tutti quei luoghi in cui riesce a insinuarsi. Siano essi geografici (altri Stati) o non-luoghi: come i social, facebook o twitter, internet. Si sono calcolati anche i tempi di attuazione: il progetto richiederà una generazione e mezza», ci dice Orioles. Tempi lunghissimi.
Oscar Puntel