Cosa vogliono ‘rappresentare’ i terroristi del Califfato islamico con John il boia vestito di nero, il deserto sullo sfondo, il coltellaccio tra le mani? Vogliono suscitare e diffondere il terrore, non c’è dubbio, perché è questa la mission del terrorismo. Ma cosa vogliono evocare nel loro “pubblico” con la sinistra silouette del boia John? La risposta può apparire bizzarra, ma molte ragioni fanno ritenere che sia proprio quella giusta: John è un guerriero ninja.
Ragioniamo attorno alle tecniche di comunicazione dell’Isis con Marco Bruno, ricercatore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Sapienza di Roma a partire da un convegno che si è tenuto nei giorni scorsi per presentare “E dei figli, che ne facciamo?” (Aracne editrice) di Marco Orioles, un saggio dedicato alle seconde generazioni in Europa. Tema vastissimo che in questa fase conduce inevitabilmente al problema dei foreign fighters, migliaia di ragazzi cresciuti in Occidente che abbandonano le famiglie e la loro stessa vita per arruolarsi nelle truppe sanguinarie di Al Baghdadi. O di quanti restano in Europa, o vi rientrano, per formare cellule dormienti, o diventare ‘lupi solitari’, ragazzi insospettabili capaci di trasformarsi all’occorrenza in macchine di morte. Ed è stato su questo che si è sviluppata una parte importante del dibattito.
Marco Bruno ha parlato dei video dell’Isis come di un “format riconoscibile” . “I potenziali foreign fighters, cioè le persone a cui questi filmati sono rivolti – spiega – spesso hanno avuto un’affiliazione religiosa, ma non hanno gusti culturali diversi da quelli dei loro coetanei che vivono in Egitto o in Marocco. Le tv arabe hanno un ritmo più lento, servizi molto più paludati, mentre l’Isis utilizza tecniche che richiamano il videogame, il film d’azione, ritmi familiari ai giovani occidentali”, Ed ecco John il boia: “Il jihadismo del 2001 era diverso – continua Bruno – quello di oggi non ha nulla dell’estetica siriana o iraqena e John il boia è molto più simile a un guerriero Ninja che a Bin Laden”.
Nell’estetica dell’Isis convivono le tecniche più moderne della comunicazione e il medioevo. Il contenuto è ferocemente arcaico, il montaggio è quello globale. Le due articolazioni della mission – terrorizzare e reclutare – seguono percorsi paralleli. La prima quella “antica”, il superare sempre l’asticella del raccapriccio: gli sgozzamenti, poi le decapitazioni, il pilota giordano bruciato vivo, il boia-bambino. La seconda è modernissima. Ha un target preciso e conosce le tecniche della viralità, sa perfettamente cosa chiedono i social network. E invece noi? Lo sappiamo? Abbiamo un racconto alternativo?
E’ la domanda che nel dibattito è stata posta da Mario Morcellini, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Sapienza di Roma, che dà una risposta negativa: non abbiamo una narrazione capace di contrapporsi con altrettanta efficacia a quella del terrore. Non che non ci poniamo il problema. Di recente si è molto discusso attorno alla scelta di Rai News 24 di non trasmettere più i video dei terroristi. Una scelta che richiama, ha sottolineato Morcellini, il dibattito degli anni Settanta attorno allo “staccare la spina” ai proclami delle Brigate rosse. Con una differenza: che mentre allora alla rappresentazione dei “fatti” del terrorismo si opponevano altri “fatti” e quindi la possibilità di una rappresentazione alternativa, oggi non è più così.
Le cause sono innumerevoli, ovviamente. Ma, stando sul tema della comunicazione, un ruolo fondamentale ce l’hanno i mass media e la loro tendenza a raccontare più che a spiegare la realtà. “Ci propinano rappresentazioni – ha sottolineato Morcellini – che vengono reiterate dalla voracità dei media per il racconto”. E’ il caso della scena degli aerei che sventrano le Torri Gemelle di New York, proposta e riproposta centinaia di volte trascurando il fatto che solo la prima volta quell’immagine è tecnicamente una notizia (cioè qualcosa di nuovo) e tutte le altre volte contribuisce a costruire un’icona che ci introduce immediatamente nella dinamica del terrore.
La scelta di Rai News è stata una scelta coraggiosa. Ma, anche se fosse fatta propria da tutte le televisioni, non basterebbe. Se non altro perché nell’era dei social lo stesso concetto del “staccare la spina” è un po’ velleitario. E’ necessario costruire un racconto alternativo. E se è vero che in questa costruzione il giornalismo da solo non basta perché ci vogliono nuovi “fatti” che devono venire dalla società civile, qualcosa si può fare subito. Perché, a saperli cercare, è possibile trovare “fatti” idonei a prestarsi a un nuovo racconto. “La settimana scorsa – ricorda Marco Bruno – centinaia di donne hanno manifestato a Tunisi per chiedere il rientro dei loro figli partiti per unirsi al Califfato. Ecco, quelle immagini, e immagini di quel genere, hanno una loro forza e possono essere il punto di partenza per proporre un altro racconto. Altrimenti resteremo in silenzio, ci saranno solo loro. E a quel punto avranno già vinto”.
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