Dopo quasi due anni di indagini, il procuratore speciale Robert Mueller III ha diffuso il suo rapporto sul Russiagate. Le sue conclusioni, tuttavia, erano già note da qualche settimana. Da quando, cioè, Mueller ha consegnato il documento nelle mani dell’Attorney General William Barr, lesto a dichiarare che la tanto chiacchierata collusione tra il comitato elettorale del candidato Donald Trump e i russi non c’è stata. Con buona pace di chi, per ventidue mesi, ha sperato che la maxi inchiesta dell’FBI consegnasse tutt’altro verdetto.
Il rapporto Mueller non solo non schiuderà le porte ad un procedimento di impeachment per il capo della Casa Bianca, ma potrebbe segnare l’inizio di una nuova indagine di segno opposto. Un Russiagate 2.0 che, per mutuare l’espressione usata da Federico Punzi, potremmo chiamare “FBIgate”.
Possiamo utilizzare questa etichetta per designare i fatti denunciati, tra gli altri, dallo stesso Trump. “Hanno spiato la mia campagna”, ha twittato il presidente Usa. “Spionaggio c’è stato”, gli ha fatto eco il ministro della Giustizia, Barr.
Chi ha spiato chi e perché? L’ipotesi, al momento fumosa ma intrigante, è che il team che durante la scorsa campagna presidenziale ha lavorato per il candidato Trump sia stato il bersaglio di una operazione clandestina condotta dall’FBI e da altre agenzie di intelligence, le quali – in combutta con alcuni servizi di Paesi alleati, tra cui, come vedremo in seguito, l’Italia – avrebbero teso una trappola al futuro inquilino della Casa Bianca. Lo scopo ultimo era di danneggiare Trump con l’accusa, diventata poi l’architrave del Russiagate, di essere in combutta con i russi.
Ma leggiamo cosa scrive a tal proposito Punzi: “L’FBI, è il sospetto, si sarebbe prestata, giocando di sponda con personaggi legati alla Campagna Clinton, a fabbricare o avvalorare le evidenze di contatti tra la Campagna Trump e i russi, attirando gli sprovveduti consiglieri con la “mela del peccato”, il materiale compromettente sull’avversaria hackerato dai server del Comitato nazionale democratico. Tutto ciò doveva servire a screditare il candidato Trump prima dell’8 novembre (2016) e come “polizza di assicurazione” nel caso fosse stato eletto, per sabotare la sua presidenza.
Fantascienza? Dietrologia al cubo? Può darsi. Ma se prudenza vuole che certe tesi vadano prese con le molle, questa stessa prudenza suggerisce anche di porsi qualche domanda. Specialmente per via di un dato di particolare interesse: se c’è stato, il complotto contro Trump ha avuto come palcoscenico la nostra capitale, Roma, e come interprete protagonista un misterioso professore maltese, Joseph Mifsud, che all’epoca dei fatti insegnava in un’università privata dell’Urbe – la Link Campus fondata dall’ex ministro Dc Vincenzo Scotti – che ultimamente ha fatto parlare molto di sé per essere diventata il vivaio del grillismo di governo.
Se i nomi di Elisabetta Trenta, attuale ministro della Difesa e già docente Link, di Emanuela del Re, viceministro degli Esteri e titolare di insegnamento alla Link, e di Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa e studente eccellente dell’ateneo, non figureranno mai nel registro degli indagati di una ipotetica inchiesta, sicuramente la presenza dei loro nomi in questa vicenda incuriosisce. E solleva svariati interrogativi, stimolati dalle rivelazioni fatte dall’uomo che è al centro di questo intrigo internazionale: l’ex consigliere di politica estera del candidato Trump, George Papadopoulos.
Papadopoulos è una delle figure chiave del Russiagate. È stato il primo collaboratore di The Donald a finire impigliato nella rete di Mueller, che con l’accusa di falsa testimonianza lo ha fatto finire per due settimane nelle patrie galere. Una condanna che ha avvelenato il dente di Papadopoulos che adesso, oltre a contestare il provvedimento preso nei suoi confronti, ha deciso di smontare pezzo per pezzo l’inchiesta di Mueller. E di puntare il dito contro il nostro Paese.
Come Papadopulos ha dichiarato il mese scorso al quotidiano “La Stampa”, quel che abbiamo imparato a nominare Russiagate sarebbe stato in realtà “un complotto ordito per rovesciare il presidente Trump, e l’Italia ha contribuito ad organizzarlo. Io sospetto che i servizi di intelligence di Roma abbiano avuto un ruolo, a partire dal loro rapporto con Joseph Mifsud”.
I fatti sono in parte noti, e se ne trova traccia nel rapporto Mueller. Il 14 marzo 2016 Papadopoulos si trovava nella sede romana della Link Campus per partecipare ad un simposio. Come l’ex consigliere di Trump ha spiegato a Sky:
Quando sono entrato alla Link Campus, ho subito capito che c’era qualcosa di strano, che non era un’università normale. Sembrava più una scuola di formazione per l’intelligence. Durante questa conferenza conobbi il direttore della Link Campus, Vincenzo Scotti, che ad un certo punto mi chiamò e mi disse: ‘George, vieni, questa è la persona che volevamo tu incontrassi’. E mi presentò il prof. Joseph Mifsud. (…) quando iniziammo a parlare ebbi l’impressione che in realtà Mifsud sapesse già tutto di me.
L’incontro tra Papadopoulos e Mifsud non sarebbe stato casuale. Al contrario, come lo stesso Papadopoulos ha rivelato su Twitter, “un intermediario dell’FBI di stanza a Londra mi aveva incoraggiato a incontrare Mifsud a Roma in una università in cui l’FBI e la CIA organizzano simposi e formano i funzionari dell’intelligence italiana”.
Com’è noto, sarebbe stato proprio questo incontro a dare la scintilla all’inchiesta di Mueller. Nelle carte del superprocuratore, Mifsud è il “professore” che offrì a Papadopoulos il famoso dirt su Hillary Clinton: le mail della candidata Dem che furono sottratte da hacker russi e finirono poi su Wikileaks. La prova, secondo l’ipotesi coltivata dal superprocuratore, della cospirazione russa di cui Trump sarebbe stato complice e beneficiario.
In questa narrazione, Mifsud ricopre il ruolo di intermediario: in pratica, una spia al soldo del Cremlino scaturita nelle aule di un ateneo in cui, paradossalmente, si formano i quadri dell’intelligence occidentale. Un gran brutto affare – se così fosse davvero – per la Link. E per Mifsud. Che, non a caso, quando – nell’ottobre 2017 – il Washington Postscoperchia la vicenda e fa il suo nome, si volatilizza.
Imbarazzatissimo, Scotti all’epoca cercò di minimizzare. “L’università non ha alcuna informazione su dove si trovi”, dichiarò il presidente della Link mentre, dal sito web dell’ateneo, venivano cancellati tutti i riferimenti agli incarichi di Mifsud.
Dunque: perché Mifsud, quando i suoi incontri con Papadopoulos diventano di dominio pubblico, scompare? E perché, a occuparsi del suo occultamento, è proprio la Link di Scotti? Ma soprattutto: dove si trova ora, “The Professor”?
A questo punto, si entra necessariamente nel campo delle illazioni. Come quelle che fa il legale svizzero di Mifsud nonché socio della Link: Stephan Roh. Nel suo libro “The faking of Russiagate”, Roh riporta una conversazione avuta con Mifsud il 13 gennaio 2018 – quando il docente era irreperibile – nella nuova sede della Link a Casale San Pio V. Al suo avvocato, Mifsud confessa non solo di essere stato incastrato, ma che “i servizi segreti italiani hanno contattato il presidente della Link Campus, Vincenzo Scotti, raccomandandogli che il professore sparisse e restasse per un po’ in un luogo sicuro”. Il motivo, secondo Roh, è che “il Professore e i suoi amici temono per la sua vita”.
Il mistero, a questo punto, si infittisce. Chi minaccia Mifsud? E perché? E come mai, se la versione di Roh risponde al vero, i servizi italiani si sarebbero adoperati per favorire la sua scomparsa? Insomma, cosa si tiene nascosto all’opinione pubblica italiana e statunitense?
In attesa di risposte, che potrebbero non arrivare mai, cerchiamo lumi nelle esternazioni social di Papadopoulos. Nel suo profilo Twitter, Papadopoulos mette insieme i pezzi più significativi di questo curioso puzzle. Ecco, così, che Mifsud – quello che, ricorda l’ex consigliere di Trump, per due anni è stato universalmente definito come una “spia russa” – sarebbe in realtà “un asset dell’FBI”. Ovvero, spiega Papadopoulos in un altro cinguettio, un soggetto che ha ricevuto l’incarico di “comportarsi come se fosse un asset russo” e di offrire al fiduciario di Trump “informazioni bizzarre sulle email di Clinton nelle mani dei russi”.
A meno che (Mifsud) non fosse il più grande doppio agente della storia – ha spiegato a “La Stampa” Papadopoulos – è chiaro che gestiva un’ operazione per dare informazioni a me sui russi, nella speranza che le girassi alla campagna di Trump. (…) Quindi è logico sospettare che Mifsud, sotto la guida dell’Fbi, dei servizi italiani e di quelli inglesi, stesse cercando di creare un falso scenario di collusione con la Russia basato sulla mia persona”.
La conclusione cui giunge Papadopulos è da brividi: “Il Dipartimento di Giustizia di Obama mi ha spiato illecitamente” e coinvolto in una “falsa cospirazione”, quella che tutti noi, per due anni, abbiamo chiamato Russiagate. “L’amministrazione Obama”, precisa, “ha usato come un’arma l’FBI, la Cia e la Gran Bretagna, l’Australia e l’Italia (…) per danneggiare un presidente”. Di qui, dunque, il “consiglio” di Papadopoulos ai giornalisti del suo Paese: “contattate il governo italiano e scoprite perché Joseph Misfud viene protetto dall’intelligence italiana”.
Papadopoulos ha anche un messaggio per le nostre autorità: “Il governo italiano – ha dichiarato a Sky – dovrebbe mettere a disposizione dell’amministrazione americana tutte le informazioni che ha su Mifsud. Dovrebbero dirci ad esempio se è ancora in Italia (…). Io credo che sia nell’interesse del governo italiano collaborare con il Congresso e con l’amministrazione, per aiutare a smascherare quello che è stato il più grave tentativo di colpo di stato contro un presidente in carica nella storia d’America”.
Non sappiamo, al momento, se l’FBIgate prenderà corpo e se ne nascerà un’indagine accurata come quella appena conclusa da Mueller. L’amministrazione Trump lavorerà probabilmente in questa direzione e non solo per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Se infatti l’ipotesi sollevata da Papadopulos ha qualche fondamento, saremmo di fronte ad una spy story degna del miglior Le Carrè. Una storia in cui più di qualcuno sarà chiamato a fornire spiegazioni: a partire da Vincenzo Scotti, per finire con quel suo collaboratore e socio, Joseph Mifsud, che custodisce uno dei segreti della Repubblica Italiana degli ultimi anni.