Le coincidenze sono spesso istruttive. Quel che è successo, negli stessi giorni, in tre diversi Paesi islamici ci offre così una lezione sul futuro della democrazia in un momento storico in cui “il sistema di governo peggiore, ad eccezione di tutti gli altri” (Churchill) non gode affatto di buona salute. L’Indonesia è una nazione di cui si parla molto poco. L’ultima volta che è finita al centro dell’attenzione generale è stata nel 2004, l’anno del tragico Tsunami che devastò l’arcipelago. Eppure, nel Paese islamico più popoloso della terra si è consumato questa settimana un evento che meriterebbe di essere discusso ampiamente e in tutte le sedi: le elezioni. Duecento milioni di indonesiani si sono recati alle urne per scegliere il nuovo capo dello Stato: un colossale esercizio democratico che dovrebbe far riflettere quanti nutrono la convinzione che l’Islam sia incompatibile con la democrazia. Sarebbe bello, naturalmente, se questo segnale incoraggiante fosse indicativo di una tendenza generale. La verità è purtroppo un’altra: la lunga marcia della democrazia procede a ostacoli. Mentre gli indonesiani sceglievano il loro nuovo presidente, il parlamento egiziano varava a grande maggioranza alcune modifiche alla Costituzione che, oltre ad allungare di due anni l’attuale mandato del presidente Abdel Fattah al-Sisi, cancellano il limite dei due mandati per la più alta carica politica del Paese. La riforma non entrerà in vigore prima della sua approvazione via referendum, ma in un Paese che alle ultime presidenziali ha tributato a Sisi il 99% dei consensi, pochi dubitano che la manovra del rais e dei suoi fidi parlamentari non andrà in porto. Con buona pace di chi invoca la verità per il nostro Giulio Regeni, e di chi scambiò le primavere arabe per un’ondata rivoluzionaria irreversibile, Sisi non scenderà dal trono prima del 2030. Come conciliare questa pessima notizia con quelle arrivate nel frattempo dall’Algeria e dal Sudan che, dopo una suggestiva mobilitazione popolare, hanno deposto i rispettivi leader, Abdelaziz Bouteflika e Omar al-Bashir, al potere rispettivamente da venti e trent’anni? Il caso dell’Algeria è degno di rilevo: qui la classe dirigente era a tal punto incollata alle proprie poltrone da essere stata battezzata “Le Pouvoir”. Ma quando, in prossimità delle elezioni, “il potere” ha deciso di candidare l’ottuagenario e malconcio Bouteflika per la quinta volta, il popolo si è ribellato. Conclusione: la democrazia non starà bene, ma i regimi più impresentabili hanno ottime ragioni per preoccuparsi.
Paesi islamici: solita corsa a ostacoli verso la democrazia