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Vi spiego perché in Turchia è stata un po’ bocciata la Erdoganomics

Pubblicato il 03/04/2019 - Start Magazine

di Marco Orioles

Il voto amministrativo di domenica in Turchia è stato un boccone amaro per il Sultano di Ankara. Recep Tayyip Erdogan incassa una bruciante sconfitta in città chiave come la stessa capitale e Istanbul, la metropoli sul Bosforo da cui era cominciata, con il mandato di sindaco, la sua parabola ascendente che ha segnato un’epoca, quella del dominio incontrastato dell’AKP e del suo leader.

Una fase lunga diciassette anni che, come spiega Valeria Talbot, Senior Research Fellow dell’Ispi e Co-Head del Middle East and North Africa Centre, conosce adesso una “battuta d’arresto”. In questa conversazione con Start Magazine, Talbot mette in evidenza i motivi della débâcle, prevalentemente riconducibili ad un marcato deterioramento economico che ha spinto l’elettorato a punire nelle urne la cosiddetta “Erdoganomics”.

Il malessere economico della Turchia arriva, inoltre, in un momento delicato sul piano internazionale, dove la maretta con Washington, che è seriamente intenzionata a punire in modo esemplare Erdogan per i suoi valzer russi, si aggiunge alle fibrillazioni sul fronte ancora caldo della crisi siriana, in cui Ankara è pienamente coinvolta. Elementi di instabilità che hanno contribuito a scalfire l’immagine, sapientemente coltivata dall’attuale presidente, di una Turchia fiera e sicura di se stessa.

Dunque, Valeria Talbot, l’esito delle urne in Turchia ci dice che il partito del Sultano ha incassato una sconfitta in città importantissime come Istanbul e Ankara. Se guardiamo tuttavia ai numeri complessivi del voto, l’AKP rimane dominante, nonostante lo scossone. La sua lettura?

Per l’AKP è stata sicuramente una battuta d’arresto. Se guardiamo alla cartina del risultato elettorale, vediamo che l’AKP ha perso non soltanto nella capitale, ma anche a Istanbul, dove è stato chiesto comunque il riconteggio dei voti, e quindi bisognerà aspettare qualche giorno per avere il risultato finale. Si tratta di un segnale importante che ci dice che qualcosa in Turchia è cambiato. I segnali di cambiamento sono arrivati dal malcontento della popolazione, che ha risentito fortemente del deterioramento dell’economia. Non dimentichiamo che Istanbul è stata la capitale economica dell’AKP, ed è dunque più di un simbolo il suo passaggio all’opposizione.

Opposizione che è uscita senz’altro vincitrice da questo test. Possiamo vedere in questo risultato una rivincita dei seguaci laici del padre della patria, Kemal Ataturk, contro l’agenda islamista di Erdogan?

Io ci vedo il riemergere di una parte della Turchia, quella laica, che si è sempre posta in opposizione ad Erdogan. Il risultato elettorale potrebbe essere visto come il primo passo verso la costituzione di una opposizione che, in una prospettiva di lungo periodo, potrebbe porsi come alternativa.

Tra gli indicatori del malessere economico della popolazione turca, quale secondo lei ha influito di più nel voto?

Sono stati senz’altro il deterioramento del potere d’acquisto, il deprezzamento della lira rispetto al dollaro e la crescita vertiginosa dell’inflazione che ha fatto aumentare il prezzo dei beni di consumo. I turchi sono stati colpiti nel portafoglio e nei loro consumi quotidiani. Ricordiamo che circa un mese fa ad Ankara ed Istanbul il governo ha aperto dei punti vendita di frutta e verdura a prezzi calmierati, e questo la dice lunga sul momento attuale.

Il voto è quindi un atto di accusa nei confronti della Erdoganomics?

Direi proprio di sì. L’economia è stata per lungo tempo il fiore all’occhiello del partito di Erdogan e il pilastro su cui si sono rette le sue vittorie elettorali in tutti questi anni. Finché l’economia reggeva, l’AKP aveva un ampio sostegno. Va detto, comunque, che leggendo bene i risultati delle precedenti tornate elettorali se ne poteva ricavare l’immagine di un Paese spaccato, con un 50% più uno a favore di Erdogan e un altro 50% a favore dell’opposizione. Un’opposizione frammentata e divisa che però, in questo ultimo appuntamento elettorale, è riuscita a presentarsi in alleanza, un po’ come era successo alle parlamentari e presidenziali dello scorso giugno. Un’altra novità importante di questo turno elettorale è stata il fatto che nelle grandi città come Istanbul e Ankara il partito curdo non ha presentato dei propri candidati ma ha invitato il proprio elettorato ad appoggiare i candidati dell’Alleanza Nazionale.

A proposito di quadro economico deteriorato, noi a Start Magazine abbiamo messo in evidenza il ruolo giocato dalla decisione della Federal Reserve americana di rialzare i tassi, che ha creato notevoli problemi ai prestiti esteri turchi. C’è dunque lo zampino di Washington nei risultati di domenica?

Io non sono a favore delle tesi complottistiche. In ogni caso, le tensioni tra Usa e Turchia sono state innumerevoli e continuano su diversi piani. Ricordo che la Turchia si è accordata con la Russia per l’acquisto del sistema S-400. Russia che, ricordiamolo, è il principale attore nella crisi siriana. La Turchia ha bisogno della partnership con la Russia per assicurarsi che i suoi interessi siano preservati nel futuro assetto della Siria. Questo fa capire che le tensioni con gli Stati Uniti non si fermeranno.

Stati Uniti che, a quanto pare, sono intenzionati a negare ad Ankara il loro gioiellino: gli F-35. Lei ritiene che i jet della Lockheed Martin non arriveranno mai in Turchia?

Non ho la sfera di cristallo per dirlo. Però, viste le condizioni attuali, direi che non ci sono le premesse.

Perché la Turchia non ha accettato la proposta americana di acquistare, in alternativa al sistema russo S-400, i Patriot?

Perché c’era già l’accordo con la Russia, e la proposta americana è arrivata successivamente. La Turchia quindi in questo momento si trova in una situazione difficile, non vorrebbe scontentare nessuno ma non potrà far contenti tutti.

Gli eventi sul fronte della crisi siriana hanno subito una drastica accelerazione con la decisione di Trump, poi parzialmente rivista, di ritirare le truppe Usa. Una decisione maturata proprio durante una sua telefonata con Erdogan. Adesso l’America sta cercando di convincere i propri alleati a presidiare una zona cuscinetto che separi i combattenti curdi dell’YPG dai militari turchi. A che punto siamo?

I colloqui sono in corso, ma l’attuazione è ancora lenta. Gli Stati Uniti del resto devono ancora capire quale sia la loro strategia in Siria. Dopo aver annunciato il ritiro di tutti i soldati, gli americani adesso dicono che lasceranno in Siria quattrocento soldati. Sembra quindi che ci sia un passo indietro, dettato anche dalla complessità delle dinamiche sul terreno e dalla consapevolezza che il ritiro americano lascerebbe i curdi senza il loro difensore principale. Dunque, è una situazione in fieri.

Dal punto di vista di Erdogan, cosa conveniva di più: il ritiro di tutte le truppe Usa o il mantenimento di questa forza residuale?

La Turchia inizialmente avrebbe voluto occupare la zona lasciata libera dalle truppe americane. Ma questo è entrato in contrasto con gli interessi degli altri attori presenti nello scenario siriano come i curdi, la Russia, l’Iran e lo stesso regime di Damasco. Il fatto che gli americani abbiano cercato delle garanzie per i curdi e non le abbiano ottenute è stato uno dei motivi che ha indotto l’amministrazione Trump a lasciare la situazione così com’è. Le dinamiche sul campo rimangono comunque molto complesse.

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