Ieri si è celebrato un nuovo atto del teatrino nucleare di Stati Uniti e Corea del Nord, con ulteriori dichiarazioni incendiarie che alimentano il fuoco delle tensioni tra i due Paesi. Protagonista del siparietto è stato anche stavolta il flamboyant ministro degli Esteri del Nord Ri Yong-ho, che sabato scorso, a margine del suo discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite, aveva lasciato intendere che il suo Paese fosse pronto al test di una bomba all’idrogeno sul Pacifico.
Parlando ai reporter assiepati davanti al suo albergo di New York, a pochi passi dal Palazzo di Vetro, il capo della diplomazia del regno eremita ha rilasciato una dichiarazione tutt’altro che diplomatica: “Visto che gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra al nostro Paese, abbiamo il diritto di prendere tutte le contromisure del caso, incluso il diritto di abbattere i bombardieri americani anche se non sono nello spazio aereo del nostro Paese”. “Il fatto che questo venga da qualcuno che sta attualmente occupando il posto di presidente degli Stati Uniti”, ha aggiunto la suprema feluca del Nord, “significa che si tratta chiaramente di una dichiarazione di guerra”.
Il riferimento di Ri è duplice. Da un lato, l’ultima mossa dell’America, che sabato ha inviato a nord del 38mo parallelo, non lontano dalla costa orientale della penisola, i bombardieri strategici B-1B Lancer, decollati dall’isola di Guam e scortati da uno squadrone di caccia F15-C partiti dalla base giapponese Usa di Okinawa. Dall’altro lato, il tweet che lo stesso giorno Donald Trump ha scagliato, come suo costume, nel cyberspazio, dopo che Ri aveva annunciato il test della bomba termonucleare: “Ho appena ascoltato il ministro degli Esteri della Corea del Nord parlare all’Onu. Se le sue parole riflettono i pensieri di Little Rocket Man, costoro non resteranno in circolazione a lungo”. Centoquaranta caratteri che hanno fornito lo spunto per la pronta replica di Ri: “Il mondo dovrebbe sapere con chiarezza che sono stati gli americani a dichiarare per primi la guerra al nostro Paese. Poi vedremo chi non resterà in circolazione a lungo”.
Una dichiarazione di guerra cinguettata sarebbe inedita, anche se sintonizzata con la temperie tecnologica. È certo che i bellicosi leader coreani l’hanno interpretata come tale. Con un colpo di teatro degno di questa pièce all’atomo, Ri ha infatti aggiunto, ritornando davanti ai microfoni dei reporter dopo aver terminato le sue dichiarazioni, che “alla luce della dichiarazione di guerra di Trump, tutte le opzioni saranno sul tavolo operativo della leadership suprema”. Ma per interpretare quest’ultimo recitativo, occorre fare un passo indietro, e tornare a martedì scorso, quando Trump, esordendo al Palazzo di Vetro davanti alla platea assiepata di capi di governo e diplomatici, aveva promesso che la Corea del Nord sarebbe stata “totalmente distrutta” qualora avesse osato attaccare gli Stati Uniti o i loro alleati della regione. Affermazione cui avrebbe replicato quarantott’ore dopo lo stesso Kim Jong-un, che padroneggiando il registro drammatico aveva parlato della “più feroce dichiarazione di guerra della storia”, annunciando che a quel punto il suo Paese si sentiva in diritto di prendere le “più dure contromisure della storia”.
Ci ha pensato la portavoce della Casa Bianca Sarah Huckabee Sanders ieri a gettare acqua nel fuoco. “Non abbiamo dichiarato guerra alla Corea del Nord”, ha sostenuto in conferenza stampa, “e francamente sostenere questo è assurdo”. Aggiungendo quindi che “non è mai appropriato per un Paese abbattere gli aerei di un altro Paese quando sorvolano le acque internazionali”. Ma le precisazioni di Sanders sono arrivate in parallelo al comunicato del Pentagono, che ha ribadito la linea e rincarato la dose: “se la Corea del Nord non interromperà le provocazioni, forniremo al presidente tutte le opzioni possibili. Abbiamo un immenso arsenale da mettere a disposizione” di Trump.
In questo clima rovente è difficile discernere la minaccia retorica dalla provocazione reale. Tutto sembra evidenziare che i personaggi della saga si stiano prendendo troppo sul serio, e si siano avvitati in un gioco senza ritorno, con potenziali esiti esplosivi. Ne è certo, tra gli altri, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, che sabato a New York ha detto che “le teste calde si devono calmare, qui non siamo all’asilo”. Il richiamo di Lavrov testimonia la preoccupazione della comunità internazionale per un’escalation che dalle esternazioni di sen sfuggite potrebbe debordare in un confronto militare, che potrebbe deflagrare anche a seguito di un calcolo errato o di un incidente imprevisto.
Il casus belli, ad esempio, potrebbe venire dall’abbattimento di un aereo statunitense. Non sarebbe la prima volta. Bisogna tornare ai tempi di Nixon, nell’aprile 1969, per individuare il primo precedente, quando un aereo spia Lockeed EC-121 che sorvolava il mar del Giappone fu colpito dal Nord, per il quale il velivolo aveva fatto irruzione nel suo spazio aereo (il Pentagono negò, sostenendo che si trovava a 50 miglia nautiche dalla costa). Il bilancio fu di 31 morti, uno degli episodi più gravi di tutta la Guerra Fredda.
Venticinque anni dopo, Clinton regnante, toccò ad un elicottero dell’Us Army finire nel mirino di Pyongyang, a causa di uno sconfinamento poi ammesso dagli Stati Uniti. Uno dei due piloti perse la vita, mentre il secondo fu catturato e liberato dal Nord solo tredici giorni dopo. Allora, però, il programma nucleare e missilistico del regime non aveva raggiunto lo stadio inquietante di oggi, e l’amministrazione americana poteva convincersi di risolvere la questione con un negoziato. Le capacità mostrate in questi mesi dalla Corea, che lo scorso 3 settembre ha testato una bomba all’idrogeno e quest’estate ha lanciato numerosi missili, di cui almeno uno di gittata intercontinentale, hanno elevato il grado della crisi tra i due Paesi. Una crisi surriscaldata dalle parole in libertà di leader incontenibili e smaniosi di menare le mani.