Scampato il pericolo dell’assegnazione del Nobel per la pace al ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, candidato insieme ad un’altra personalità dai meriti non pervenuti, Federica Mogherini, il comitato di Oslo ha pensato bene di indulgere in un’altra provocazione, conferendo il prestigioso riconoscimento all’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Ican), organizzazione no-profit nota per aver promosso il Trattato per l’abolizione delle armi nucleari, siglato all’Onu lo scorso luglio da 53 paesi.
Il senatore Antonio Razzi, che tutti conosciamo per la sua perenne candidatura a mediatore con la Corea del Nord, in cuor suo avrà esultato alla lieta novella. E così tutte le anime pie che si riconoscono nella bandiera arcobaleno e vedono in Trump uno smargiasso che minaccia la pace nel mondo a colpi di tweet. Il loro nuovo eroe, la direttrice dell’Ican Beatrice Fihn, è donna oltremodo coraggiosa, di sani principi e dalla lingua lunga. Il Nobel che le è stato conferito è, dice la premiata, “un messaggio agli Stati che hanno armi nucleari. Continuare a basare la propria sicurezza sulle armi atomiche è un atteggiamento inaccettabile. Stiamo cercando di mandare forti segnali a chi ha queste armi, Corea del Nord, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan: è inaccettabile la minaccia di uccidere civili”.
Fihn non ha peraltro paura di fare nomi e cognomi. “Donald Trump e Kim Jong-un devono fermarsi. Dovrebbero sapere che le armi nucleari sono illegali, minacciare di usarle è illegale, svilupparle e illegale. Loro devono fermarsi”. Già. Il mondo ha palpitato non poco per il siparietto delle ultime settimane, con il presidente degli Stati Uniti che ha minacciato di “distruggere totalmente” la Corea del Nord di “Little Rocket Man”, e quest’ultimo che ha restituito pan per focaccia, promettendo di ridurre in cenere le città che hanno avuto l’ardire di votare quel “vecchio rimbambito” di The Donald.
I principi altisonanti snocciolati dal capo di Ican rincuoreranno tutti coloro che, trent’anni or sono, si sgolarono nelle piazze italiane per dire no agli euromissili, o quanti un paio di decenni prima scandirono a gran voce “meglio rossi che morti” nel timore che la prepotenza americana potesse incentivare l’Orso sovietico a scatenare l’inverno nucleare nel Vecchio Continente. Il fascino del pacifismo è senza tempo. Moda eterna, che contagia continuamente nuove generazioni perché ha il merito di aiutare a discernere i nemici dagli amici. E l’America, si sa, della pace è da sempre il principale ostacolo, specie in un momento come questo, con la Casa Bianca occupata da un bullo con la valigetta nucleare a portata di mano.
Nel coro unanime di plauso ai demiurghi di Oslo, che incoronano Beatrice Kahn a regina della pace, si distingue sì e no qualche voce isolata. Come quella dell’opinionista del New York Times Breth Stephens, che in un eccesso di zelo di sen sfuggito ha vergato, poco dopo l’assegnazione del Nobel, una colonna dal titolo incendiario: “Non mettete al bando la bomba”. Ohibò, e perché mai? Per spiegarsi, Stephens ricorda niente meno che la massima di un noto guerrafondaio, il primo ministro francese dei tempi della Grande Guerra Georges Clemenceau: “La guerra è un affare troppo serio per essere lasciata ai militari”. Adagio che, nell’era dell’Ican, deve essere aggiornato secondo Stephens con l’altrettanto prosaico “La pace è un affare troppo serio per essere lasciato ai pacifisti”.
La provocazione di Stephens è, riducendola all’osso, semplice. Ci sarà un motivo, dice il commentatore, se il Trattato per la messa al bando delle armi atomiche è stata ratificato da appena tre paesi – Guayana, Tailandia e Vaticano – e, tra questi, nessuno che possieda la fatidica bomba. Perché quest’ultima, contrariamente agli intendimenti dell’Ican, è la maggiore garanzia che abbiamo per tutelare la pace. In che senso? Qui il ragionamento di Stephens si sovrappone a quello articolato da Carl Bildt, ex primo ministro e ministro degli esteri svedese e diplomatico di lungo corso, artefice tra le altre cose degli accordi di Dayton che posero fine nel 1995 al sanguinoso conflitto della ex Jugoslavia. I paesi dotati di bomba atomica, ci spiega Bildt, non si combattono tra loro, vincolati come sono dalle logiche della deterrenza e dalla famigerata dottrina della MAD (distruzione reciproca assicurata). Non solo, ma il reticolo di alleanze che fa sì che le potenze dotate della bomba assicurino con il proprio ombrello nucleare i paesi che la bomba non ce l’hanno permette a questi ultimi di essere immuni dal flagello della guerra. Lungi dal provocare flagelli in quantità industriale, gli orpelli che l’Ican vuole cancellare dalla faccia della terra rappresentano la miglior polizza d’assicurazione contro il deflagrare di conflitti all’atomo. Gulp!
Insomma, il Nobel per la pace 2017 è stato tutt’al più un esercizio rituale, buono per rinnovare nei cuori dell’umanità i sani e nobili principi del pacifismo. Che alla pace, a differenza della bomba, ha contribuito come il due di picche.