Gli Stati Uniti sono pronti a varare sanzioni contro il Myanmar se non prenderà provvedimenti per far rientrare la crisi umanitaria che affligge la minoranza musulmana dei Rohingya, che in centinaia di migliaia sono stati costretti a fuggire dallo stato settentrionale del Rakhine a causa delle violenze dell’esercito.
La dura presa di posizione dell’amministrazione Trump può segnare la svolta in quella che, secondo le Nazioni Unite e numerose ong, è la più grave crisi umanitaria del momento, con un numero di sfollati che ha superato quota 600 mila e che aumenta ogni giorno di più. Un’emergenza iniziata il 25 agosto, quando i militanti musulmani dell’Arakan Rohingya Salvation Army hanno assaltato alcuni posti di controllo dell’esercito, causando una dura reazione con massacri, stupri, roghi di villaggi e la fuga di centinaia di migliaia di Rohingya verso il vicino Bangladesh, dove gli sfollati ora vivono accalcati in campi profughi in condizioni disastrose.
I problemi di convivenza tra i Rohingya e la maggioranza buddista del Myanmar non cominciano oggi. Risalgono almeno alla seconda guerra mondiale, quando i Rohingya parteggiavano per i britannici e i buddisti per i giapponesi. La situazione si è aggravata nel 1962, quando i militari presero il potere e la nuova giunta li privò dei diritti fondamentali, facendone dei paria. Ed è degenerata nel 1982, quando fu varata una rigida norma sulla cittadinanza che rese i Rohinhya degli apolidi. Da allora, questo minoranza che i buddisti considera un corpo estraneo della società, i cui membri sono etichettati come immigrati bengalesi nonostante vivano in Myanmar da generazioni, è di fatto una delle più perseguitate della terra, senza diritti e vittima dell’ostilità generalizzata delle altre etnie.
Nei campi profughi del Bangladesh la situazione sta precipitando. Gli oltre 600 mila Rohingya che hanno attraversato negli ultimi due mesi il fiume Raf che segna il confine con il Myanmar si sono aggiunti ai trecentomila sopraggiunti anni addietro a seguito di precedenti ondate di violenza. Secondo il direttore dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni William Lacy Swing, il flusso di persone in arrivo si è assestato a 1-3 mila persone al giorno, dal picco di 12-18 mila all’inizio della crisi. “A questo ritmo”, dichiara, “è prevedibile che si arriverà presto ad oltre un milione” di rifugiati.
Nei campi manca l’essenziale, e i loro abitanti – trecentomila dei quali sono minori – vivono adagiati l’uno sull’altro in mezzo al fango. Joanne Liu, presidente di Medici Senza Frontiere, definisce una “bomba a tempo” la situazione sanitaria dei campi, i cui ospedali possono contare su solo 210 posti letto per una popolazione “che vive senza accesso all’acqua, alle cure mediche e in precarie condizioni igieniche”. La Fao lancia l’allarme dichiarando di aver ricevuto solo un terzo dei 77 milioni di dollari necessari per sfamare tutti i rifugiati. Un grido di aiuto cui hanno risposto ieri i donatori internazionali, che hanno promesso oltre trecento milioni di dollari.
Ieri è giunta in visita anche la Regina Rania di Giordania. “È imperdonabile”, ha dichiarato, “che questa crisi si stia sviluppando largamente ignorata dalla comunità internazionale”. In verità, sin dalle prime battute di questa crisi sono state numerose e le voci che hanno preso di mira il governo del Myanmar e, soprattutto, il suo leader de facto, la consigliera di Stato nonché ministro degli esteri Aung San Suu Kyi, beniamina dei diritti umani e nobel per la pace. Interpretando il sentimento di molti, a settembre fu un altro nobel, la pakistana Malala, a pretendere dalla collega che si facesse carico della situazione. Molti, frattanto, hanno chiesto al comitato di Stoccolma di ritirare il premio conferito ad Aung San Suu Kyi. Che, sotto il pressing della comunità internazionale, decise di non prendere parte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, timorosa degli strali che l’avrebbero senz’altro colpita.
Che un nobel per la pace si trovi protagonista di un episodio di pulizia etnica è situazione apparentemente paradossale. Se non fosse che la situazione politica del Myanmar è quanto meno complessa. A tirare le fila del governo è infatti l’esercito, che nonostante le elezioni democratiche tenutesi nel 2015, che hanno sancito l’ascesa al potere della Lega Nazionale di Aung San Suu Kyi, mantiene ben saldo il controllo del paese, esercitato tramite la sovranità sui ministeri chiave. Se solo osasse denunciare i fatti del Rakhine, il premio nobel scatenerebbe l’immediata reazione dei generali, né incontrerebbe il favore del popolo, che nutre radicati pregiudizi verso i musulmani.
Ora però è l’America di Donald Trump a intimare al Myanmar di assumersi le proprie responsabilità. Nella dichiarazione rilasciata ieri dal Dipartimento di Stato, si chiede al “governo della Birmania, incluse le sue forze armate” di prendere “immediatamente delle misure per assicurare la pace e la sicurezza; implementare gli impegni per assicurare aiuti umanitari alle comunità che ne hanno disperato bisogno; agevolare il ritorno sicuro e volontario di coloro che sono fuggiti dallo Stato del Rakhine o sono sfollati; e affrontare le cause alla base della sistematica discriminazione contro i Rohingya”.
Meglio tardi che mai.