Tutti ricordiamo la famosa “linea rossa” di Barack Obama del 2012, quando l’allora presidente americano ammonì il presidente Bashar-al Assad a non fare uso di armi di distruzione di massa nel conflitto che piagava la Siria da più di un anno. Ebbene, il 21 settembre dell’anno successivo il rais ordinò di usare il sarin in un bombardamento contro il sobborgo di Ghouta, controllato dai ribelli. Fu il massacro più pesante dal tempo dell’attacco chimico condotto ad Halabja nel 1988 da Saddam Hussein contro i curdi.
Obama reagì tumultuosamente, dichiarandosi pronto a intervenire per sanzionare la pesante violazione siriana. Gli alleati europei andarono in fibrillazione, convinti che il leader del mondo libero avrebbe inflitto una dura lezione al dittatore di Damasco. Ma come Obama stesso raccontò nella lunga intervista a Jeffrey Goldberg all’Atlantic del 2016, il capo della Casa Bianca ebbe dei ripensamenti. L’idea di intervenire a piè pari in un conflitto da cui aveva voluto marcare le distanze lo spinse a valutare delle alternative. Ne scaturì l’accordo tra il suo segretario di Stato John Kerry e il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. La Siria si impegnava a smantellare il suo arsenale di armi proibite e a consegnarlo alla comunità internazionale. Simultaneamente, accettava di entrare nell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW), a dimostrazione che l’errore commesso non sarebbe mai stato ripetuto.
La via d’uscita trovata da Obama per mettere in preallarme gli scud si sarebbe rivelata, col senno di poi, una mossa sconsiderata, che ha gettato nel fango l’autorità morale dell’America dimostrando che può essere presa per il naso dal primo dittatore senza scrupoli. Lo dimostrano le prove raccolte in queste settimane dall’OPCW, che ha esaminato i corpi delle vittime e i materiali contaminati provenienti non solo da Ghouta, località oggetto dell’attacco del settembre 2013, ma anche dal villaggio di Khan al-Assat, nei pressi di Aleppo, attaccato nel marzo 2013, e dal villaggio di Khan Sheikhoun, nel governatorato di Idlib, dove i caccia di Damasco hanno usato per l’ennesima volta del sarin contro i civili il 4 agosto del 2017, nonostante formalmente – secondo l’accordo Kerry-Lavrov del 2013 – dovessero esserne sprovvisti.
Quest’ultimo episodio innescò un polverone globale. I russi e i siriani negarono l’evidenza, ben testimoniata dalle foto di corpi sofferenti scattate a Khan Sheikhoun dal personale medico. Ma accamparono la scusa che ad aver usato i gas fossero stati i ribelli per gettare discredito sul regime. Dal canto suo, il presidente Usa Donald Trump non volle ascoltare ragioni, bollò subito come fake news le illazioni di Mosca e Damasco e ordinò – nel mentre era in corso un bilaterale col presidente cinese Xi Jinping in Florida – una rappresaglia militare immediata con 57 missili scud lanciati dalle navi che incrociano sul Mediterraneo sulla base siriana di al-Shayrat da cui erano partiti gli aerei con il carico di morte.
Le scoperte dell’OPCW ora faranno salire la tensione tra la Siria e la Russia da un lato e i paesi occidentali, che non hanno mai smesso di accusare il dittatore di Damasco di essere un criminale di guerra. Ma non è detto che si riesca ad ottenere qualsivoglia risultato. Mosca ha già bloccato in Consiglio di Sicurezza a novembre il rinvio dei lavori dell’OPCW, e la sua politica del veto è inscalfibile.
Tutti gli occhi del mondo inoltre ora sono puntati sui colloqui di Sochi in corso oggi, convocati dalla Russia con l’intento di far siglare al governo siriano e al variegato fronte delle opposizioni un accordo di pace. Resta l’incognita dell’atteggiamento dei ribelli, che anche prima di venire a Sochi hanno più volte affermato di non voler venire a patti con un uomo che ha massacrato il suo stesso popolo. E ingannato ripetutamente la Comunità Internazionale.