Domani e per tre giorni si aprono le urne in Egitto per eleggere il nuovo presidente. L’unica cosa certa è il risultato: sarà la rielezione e il trionfo di Abdel Fattah al-Sisi, il generalissimo che nell’agosto 2013 defenestrò il presidente eletto della Fratellanza Musulmana Mohammed Morsi e l’anno successivo vinse le elezioni presidenziali con il 97% dei consensi.
Ma oltre a questa certezza, le elezioni egiziane sono farcite di incognite, la prima delle quali è la partecipazione al voto. Difficile predire quanti egiziani si scomoderanno a porre la propria scheda nell’urna di un’elezione manipolata fin nei dettagli. Un ex candidato alla presidenza, Hamdeen Sabbahi, ha lanciato la campagna “state a casa”, chiedendo agli egiziani di boicottare il voto e descrivendo le elezioni come una “finzione”.
E ad una finzione assomiglia in effetti una competizione elettorale in cui spicca un solo uomo, il presidente uscente, con lo sfidante che impallidisce al suo cospetto ed è un imbarazzo per i suoi stessi sostenitori: è Moussa Mostafa Moussa, il leader del piccolo partito El Ghad, che si è iscritto all’ultimo minuto non prima di aver espresso il proprio endorsement per il presidente uscente, e che ad una televisione locale ha detto che “non è qui per sfidare il presidente”.
Ma la presenza nella scheda elettorale del nome di Moussa offre a Sisi la garanzia di cui aveva bisogno, quella di un’autentica sfida tra candidati in competizione. Sfida che Sisi he gestito con abilità da manuale, non solo mettendo il bavaglio ai media, ma anche impedendo ad altri candidati con maggiori probabilità di successo di presentarsi.
“Lo giuro su Dio”, ha detto Sisi recentemente ad un programma televisivo, “desideravo che ci fossero uno, due, tre e dieci delle migliori persone” a sfidarmi. “Ma non siamo ancora pronti. Non è una vergogna?”. Sono le parole di un uomo che ha impedito a ben cinque persone di prendere parte alla competizione elettorale.
Due erano ex comandanti dell’esercito, il generale Sami Anan e il colonello Ahmed Konsowa, arrestati e incarcerati per aver violato il codice militare per il solo fatto di aver annunciato la propria candidatura. Un altro, Ahmed Shafiq, un ex comandante dell’aviazione che è stato primo ministro nel 2011, aveva prima annunciato la sua candidatura dal suo esilio negli Emirati Arabi Uniti, salvo essere arrestato e deportato in Egitto, dove è scomparso brevemente per poi riapparire con un messaggio Twitter in cui ammetteva di “non essere la persona ideale” per l’incarico. Ci sono poi Khaled Ali, un famoso avvocato per i diritti umani, e soprattutto Mohamed Anwar Sadat, ex parlamentare e nipote del presidente assassinato nel 1981: ambedue hanno denunciato intimidazioni e altri ostacoli posti sulla strada della candidatura.
“Era ovvio che non volessero avere alcun serio candidato”, si è sfogato Sadat in un’intervista. “Né era possibile che io o Shafiq o Anan vincessimo. Sappiamo tutti che il presidente Sisi è quello che ha una chance, ma ci voleva almeno un candidato serio che potesse parlare ad alta voce, dibattere. Non vogliono che questo accada”.
Si aggiungano a queste irregolarità l’oppressione securitaria, la detenzione di migliaia di oppositori politici e di attivisti, la censura, il carcere per decine di giornalisti, e si capirà che l’elezione di questa settimana sarà tutto fuorché libera. Persino l’America, che dell’Egitto è amica, ad agosto ha tagliato 290 milioni di dollari in assistenza militare ed economica al paese a causa della pessima situazione dei diritti umani.
In ogni caso, il nome del vincitore sarà annunciato il 2 aprile, se avrà conquistato più del 50% dei consensi. Altrimenti la legge elettorale prevede un ballottaggio il cui risultato finale sarà annunciato il 1 maggio.