Ricordate Douma, la città siriana brutalmente assediata e riconquistata tre mesi fa dal regime siriano e dai suoi alleati russi e iraniani? Probabilmente sì, visto che a Douma ebbe luogo un attacco chimico – l’ennesimo – che provocò decine di morti, suscitò una globale indignazione ed innescò la reazione militare di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna.
Ebbene, di Douma oggi si riparla nuovamente. È avvenuto infatti che l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opcw), dopo aver condotto delle indagini in situ (sotto lo sguardo occhiuto ed intimidatorio degli agenti governativi), ha concluso qualche giorno fa che l’attacco in questione non fu a base di gas nervino, come si sostenne allora, ma di cloro, un agente chimico di facile reperibilità ma certamente non innocuo se usato ad elevate concentrazioni e scagliato dall’alto sui civili.
Tanto è bastato per scatenare l’ira dei sostenitori del cosiddetto “asse della resistenza”. Quelli che da anni vanno perorando la causa di Bashar al-Assad, ritenuto il baluardo della civiltà contro l’aggressione dei militanti islamisti e dei loro sponsor internazionali. E che elogia Vladimir Putin per essere intervenuto al fianco del presidente siriano per impedirne la caduta – mission accomplished – e consentirgli di riconquistare, strike dopo strike, barile bomba dopo barile bomba, quei pezzi di Siria sottratti al controllo di Damasco dopo la sollevazione del 2011.
A titolo esemplificativo, prenderemo a riferimento un commento apparso sul Fatto Quotidiano di ieri. Articolo in cui l’autore denuncia la “bieca menzogna” di chi, allora, volle “far passare, presso l’opinione pubblica, un disumano attacco imperialistico”, quello americano-inglese-francese, “per un nobile intervento umanitario”. Il commento si scaglia contro la “talassocrazia del dollaro” che “aveva già deciso (…) di aggredire la Siria, rea di essere uno Stato sovrano non allineato con il nuovo ordine mondiale americanocentrico”. E punta il dito contro le “Lacrimevoli omelie di Saviano”, i “servizi strappalacrime dei telegiornali” e in generale quel “potere intellettuale” che in quell’occasione “agiva a pieno regime, sostenendo senza riserve il potere materiale”.
In merito abbiamo qualche appunto da fare. Cominciamo con il “disumano attacco imperialistico”. Da qualche tempo a questa parte gli Stati Uniti hanno rinunciato al loro impero e al corrispettivo ruolo di “benign hegemon” che furono costretti ad assumere dopo il suicidio dell’Europa di settant’anni fa. Fu un imperialismo sui generis, senza espropri territoriali né proconsoli, accettato di buon grado – giusta la definizione di “impero su invito” – da quei paesi che si trovarono, dopo la fine della seconda guerra mondiale, esposti alle brame di un altro – quello sì – impero, dalla tinta rosso sangue e dalla condotta assai più discutibile rispetto agli (indiscutibili) standard democratici vigenti al di là dell’Atlantico. A questa “talassocrazia del dollaro” aderirono di buon grado tutte quelle nazioni che avvertirono la pressione dall’espansionismo sovietico, ben esemplificato dalla fagocitazione post-Yalta dell’Europa centro-orientale. E quelle altre che nelle istituzioni multilaterali forgiate dagli Usa videro un buon viatico per conseguire crescita economica e stabilità. Ma questo “ordine mondiale americanocentrico”, come suggeriscono in queste ore gli inediti battibecchi pre-summit Nato, non solo scricchiola, ma è apertamente aggredito dal suo presunto perno, quegli Stati Uniti che ora si compattano sotto il mantra trumpiano “America first”.
L’autore sorvola su un altro dettaglio di non poco conto. Ci riferiamo al tentativo, dichiarato apertamente dal diretto interessato, di Vladimir Putin di restaurare i fasti dell’impero sovietico, attraverso una diplomazia muscolare e intimidatoria e l’uso disinvolto delle forze armate. La campagna siriana ne è il fulcro: è la strada attraverso la quale lo Zar vuole imporre il proprio dominio sulla regione mediorientale e sul Mediterraneo, di cui la Siria rappresenta un tassello fondamentale. Non è un caso se molti attori locali, dai reali sauditi al primo ministro israeliano, siano ora costretti a chiedere frequenti udienze al Cremlino, gratificando gli istinti (imperiali) del quattro volte presidente Putin. Per tacere, poi, della Crimea – primo pezzo di Europa scippato manu militari al legittimo proprietario dalla seconda guerra mondiale. E della guerra ibrida condotta dalla Russia nel Donbass, dove grazie ai mercenari filo-russi si continua a morire nel silenzio dei media. Se non è imperialismo questo, ci chiediamo cosa sia.
Fatte questa precisazioni, veniamo al nocciolo della questione. Il “disumano attacco imperialistico” di Douma non fu che la risposta alla barbara condotta militare della coalizione assadista. Che, da Aleppo fino a Douma, ha scelto il metodo della tabula rasa per convincere le opposizioni a deporre le armi. Metodo che non ha escluso il ricorso ad armi proibite dalle convenzioni internazionali, ordigni chimici inclusi.
Il Fatto Quotidiano non cita, il caso della Ghouta, dove nell’agosto del 2013 una nube chimica avvolse centinaia di uomini, donne e bambini, mandandone una buona parte al creatore tra sofferenze indicibili. Fu la patente violazione della “linea rossa” stabilita dall’allora inquilino della Casa Bianca, Barack Obama. Che, in un sussulto d’orgoglio dinanzi alla mattanza che andava in scena in Siria, nel 2002 ammonì Assad: se usi le armi chimiche, sii pronto a pagarne le conseguenze. Quando però il presidente siriano decise di non prendere nota, e gasò gli abitanti della Ghouta, la reazione (imperialistica) degli Stati Uniti non ci fu. Obama infatti decise, in sintonia con il primo ministro britannico Cameron e il presidente francese Hollande, di affidare a Mosca la risoluzione del caso. Che si concretizzò con la (presunta) consegna alla comunità internazionale dell’arsenale chimico di Assad. Fu, si pensò allora, un lodevole compromesso che, oltre ad evitare l’intervento punitivo dell’America e dei suoi alleati, avrebbe impedito la reiterazione del reato.
Peccato che, nell’aprile 2017, il gas nervino rispuntò in Siria, e si abbatté sul villaggio di Khan Sheikoun. Da cui pervennero immagini crude di civili (di cui molti bambini) soffocati, con la bava alla bocca e la pelle violata dall’agente chimico. Ci pensò Donald Trump, altro imperialista sui generis, a sanzionare pochi giorni dopo Assad con una cinquantina di missili Scud lanciati sull’aeroporto da cui era decollato il jet che scagliò gli ordigni chimici su Khan Sheikoun. Provocando la ferma reazione di Mosca, che nella mossa di The Donald intravide una minaccia al suo personalissimo progetto imperiale.
Peccato che Trump, a mettere la Siria nella sua orbita, non ci stia pensando affatto. Anzi, come il vertice di Helsinki con Putin senz’altro dimostrerà, gli Usa non vedono l’ora di abbandonare del tutto la Siria al suo (infame) destino. E di ritirare quei duemila uomini che hanno sgominato lo Stato islamico con il rilevante contributo di quei “boots on the ground” curdi che l’America si è, poco imperialmente, rifiutata di schierare sul terreno.
Fare distinzioni speciose tra cloro e gas nervino, e vomitare anacronismi come “imperialismo” e “ordine mondiale americanocentrico”, è un giochino retorico che può galvanizzare qualche nostalgico dei bei tempi andati. Ma simili stratagemmi non allevieranno affatto le condizioni drammatiche del popolo siriano, martoriato da un presidente delegittimato dalla storia ma sostenuto da un consumato imperialista come Putin, Il quale, oltre a Sputnik International e a Russia Today, può contare su falangi di propagandisti volontari per promuovere e mascherare il suo (quello sì) progetto imperialista.