A che punto è la lotta allo Stato Islamico? Dopo aver perduto le sue capitali gemelle di Mosul in Iraq e Raqqa in Siria, il movimento jihadista guidato da Abu Bakr al-Baghdadi è stato dato per sconfitto. Ma i suoi rimasugli continuano a rappresentare una minaccia, alla luce del precario equilibrio in cui versano i due paesi, Iraq e Siria, su cui un tempo si ergevano i pilastri del califfato, e soprattutto della resilienza dimostrata storicamente dai gruppi jihadisti, che pur subendo colpi fatali – vedi la morte di Osama bin Laden nel raid di Abbottabad del maggio 2011 – hanno dimostrato di saper riorganizzare i ranghi e tornare a rappresentare un serio pericolo.
Il rischio di una risurrezione dello Stato islamico a seguito della sopravvivenza di parte della sua leadership e dei suoi effettivi è ciò che ha spinto i comandi americani a lanciare il 1 maggio scorso l’Operazione Roundup. La quale, come scrivono Alexandra N. Gutowski e Sarah Nadler in un report del Long War Journal, è stata concepita per “accelerare la sconfitta” del gruppo jihadista “nella media valle dell’Eufrate e nella regione di confine tra Siria ed Iraq”.
Da quando è stata lanciata l’operazione, le attività della coalizione sono state quanto mai intense: ben 529 gli strike effettuati dal 1 maggio, con un picco nel mese di giugno (225) quando i bombardamenti aerei sono stati in numero oltre tre volte superiore rispetto a quelli lanciati a marzo contro obiettivi Isis.
La maggior parte degli strike ha interessato la località frontaliera di Abu Kamal, un tempo crocevia di flussi di jihadisti e rifornimenti che collegavano i versanti iracheno e siriano del califfato. È qui che sono riparati molti reduci delle battaglie dei mesi precedenti, nel tentativo di sfuggire all’offensiva curdo-americana e di trovare un nuovo riparo in cui organizzare la resistenza. Proprio per questo, gli aerei americani sono stati particolarmente insistenti ad Abu Kamal, oggetto di ben 365 strike, il 70% del totale di tutta l’operazione. La seconda località più bersagliata è stata la città siriana di Shadaddi, nella provincia nordorientale di Hasakah: 93 gli strike complessivi effettuati qui, il 17% del totale.
La scelta degli obiettivi è legata alla presenza di strutture operative dello Stato islamico, che sono risultate essere concentrate proprio nelle due città in questione. Secondo il conteggio fatto dal comando Usa, sono stati distrutti 85 centri di comando e controllo (74 ad Abu Kamal e 11 a Shadaddi) e 18 quartier generali (8 ad Abu Kamal e 10 a Shaddadi). I jet statunitensi hanno anche distrutto 133 vie di rifornimento, 117 delle quali ad Abu Kamal, 12 a Shaddadi e 4 a Qaim, località irachena nei pressi del confine con la Siria e prossima ad Abu Kamal.
Non sono mancati bombardamenti mirati volti a colpire elementi singoli della nomenklatura jihadista. Il 17 maggio, vicino Dashisha, in Siria, è stato eliminato Amed al-Hamdoun, che ha operato come corriere per la dirigenza dello Stato islamico. Una settimana dopo, a cadere è stato Abu Khattad al-Iraqi, uno dei leader del gruppo con le mani in pasta nel business energetico che tanto denaro ha portato nelle casse dei baghdadisti.
A finire nel mirino sono state anche figure sospettate di pianificare attacchi in Occidente. L’obiettivo, secondo il direttore delle operazioni dell’Operazione Inherent Resolve, è bloccare sul nascere il tentativo dello Stato islamico di “cercare disperatamente di rimanere rilevante attraverso operazioni che minacciano tutte le nazioni del mondo”. Ad essere eliminato è stato tra gli altri Soufiane Makouh, un cittadino belga immigrato in Siria cui sarebbe stato affidato il compito di organizzare attacchi negli Stati Uniti. Identica sorte a giugno è capitata a quattro jihadisti associati ad una cellula terroristica svedese.
Fondamentale, per il successo di questa missione, il coordinamento con le forze terrestri alleate, vale a dire quelle Forze Democratiche Siriane (SDF) che dal 2015 rappresentano la punta di lancia della coalizione a guida americana. Nelle prime battute dell’Operazione Roundup, le SDF si sono occupate di attaccare alcuni villaggi siriani come Baghuz dove si erano raccolte le forze leali ad Abu Bakr al-Baghdadi. Liberati i primi obiettivi, le SDF hanno lanciato una seconda fase delle proprie operazioni per catturare altri centri urbani. Questa seconda fase è stata dichiarata completata il 31 luglio. Adesso le SDF, che sono attualmente impegnate in attività di sminamento dei territori liberati, si accingono a fare un ulteriore sforzo per espugnare la località frontaliera di Hajin, dove secondo attivisti siriani si sta combattendo proprio in questi giorni.
I comandi americani valutano ottimisticamente i risultati del loro sforzo: il portavoce di Inherent Resolve, colonnello Thomas Veale, sostiene che “il morale” dei combattenti islamisti “è basso e i suoi leader si stanno affannando per avere salva la vita”. “Non c’è dubbio”, aggiunge il portavoce, che “il momento è dalla nostra parte”. Ma, precisa Veale, “ci stiamo confrontando con un nemico determinato e c’è ancora molto lavoro da fare”.