Se vi è uno stereotipo duro a morire è quello secondo cui gli stranieri che popolano le nostre città sono tutti criminali incalliti. Con una vocazione particolare per lo spaccio di droga, quando va bene; predatori sessuali nei casi peggiori. Tutti gli stereotipi, ci insegnano i sociologi, hanno un fondo di verità. Ebbene, in merito agli stranieri, le cronache di questi tre decenni di immigrazione in Italia ci hanno insegnato che esiste un nesso tra immigrazione e criminalità. Le statistiche giudiziarie rivelano una sovrarappresentazione degli stranieri sulla popolazione carceraria, ed una concentrazione delle incriminazioni su reati come, appunto, il traffico di stupefacenti. L’operazione di polizia di ieri che ha condotto in cella ventidue migranti con l’accusa di aver messo in piedi un’imponente rete di spaccio sembrerebbe, di primo acchito, rendere giustizia a chi nutre lo stereotipo di cui sopra. Con l’aggravante che ci troviamo di fronte a soggetti che avevano fatto domanda di asilo politico a Pordenone, città in cui da tempo si discute animatamente di accoglienza e integrazione. Ospiti, dunque, e aspiranti beneficiari della protezione internazionale, che in realtà avrebbero approfittato del loro status privilegiato per condurre attività invereconde. Non sembrerebbe possibile alcuna difesa di questi soggetti, che hanno messo a repentaglio la salute dei nostri giovani per fini di lucro. Ma una domanda da sollevare c’è. Perché se alcuni stranieri si ritrovano a svolgere l’attività di spacciatore, lo dobbiamo all’esistenza di due fenomeni che non possono essere osservati ad occhio nudo. Ci riferiamo anzitutto all’esistenza di reti criminali, costituite prevalentemente da italiani, che hanno in mano il traffico di stupefacenti e sono particolarmente abili nel reclutare manodopera che presti loro il prezioso servizio della vendita al dettaglio. Manodopera che è formata spesso da persone che, come gli stranieri, hanno minori opportunità di altri di trovare un lavoro onesto, vuoi perché non hanno competenze e profili formativi corrispondenti alle esigenze del tessuto produttivo, vuoi perché la loro rete sociale è troppo stretta e carente di legami che potrebbero essere di aiuto nella ricerca di un lavoro. Ma è il secondo fattore su cui vorremmo appuntare l’attenzione. È un fattore che vogliamo sottolineare per mettere in luce come dietro ad un fenomeno come il traffico di droga ci sia una responsabilità anche nostra. Gli spacciatori infatti non fanno altro che venire incontro ad una domanda espressa dalla nostra gioventù – e non solo – di disporre di simili mezzi di evasione. Talvolta per moda, altre volte per questioni di disagio personale, altre per l’incapacità di individuare usi alternativi del tempo libero, altre ancora per l’illusione di aver a che fare con uno strumento che olia la socializzazione, molti nostri giovani – lo dicono tutte le ricerche condotte in Italia e nel mondo – richiedono e consumano droga. Senza concedere attenuanti a chi ha voluto prestarsi a venire incontro a questa domanda, bisogna riconoscere che il problema della droga è anzitutto un problema nostro. Da risolvere con campagne di prevenzione di cui negli ultimi tempi si sente la mancanza.
Il traffico illegale è un problema nostro
Pubblicato il 20/04/2018 - Messaggero Veneto
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