È rischioso, per degli studenti di scuola media, intervistare i propri vicini di casa provenienti da paesi stranieri? È la domanda che aleggia sul caso dell’istituto Roli di Trieste. Una cui docente ha avuto l’idea di sottoporre un compito ai propri allievi: “Ci sono immigrati che vivono nelle zone in cui abitate? Rivolgete loro queste domande”. Apriti cielo. Una madre preoccupata si sfoga su Facebook: “Sembra normale che un insegnante chieda ai propri alunni di andare in giro per Trieste a fermare gli immigrati e chiedere la loro storia, il loro passato come compito a casa? Parliamo di ragazzini di 13, 14 anni!”. Levata di scudi, frattanto, in Consiglio Comunale. E predisposizione di una mozione urgente, presentata dal capogruppo del Carroccio Paolo Polidori e sottoscritta dagli altri capigruppo di maggioranza: condanna solenne della scelta di “inviare degli studenti delle scuole medie a intervistare i profughi” e richiesta al sindaco di “intervenire sul dirigente scolastico per una immediata revoca di detto ‘compito a casa’”. Un atto definito “incosciente e irresponsabile”. Perché, si legge, non si può mandare “ragazzine e ragazzini allo sbaraglio”. Non è dato sapere se, di fronte a questa reazione, l’insegnante in questione abbia tirato i remi in barca. Sarebbe un peccato. La sua mossa è infatti non solo legittima, ma auspicabile. Sollecitare i nostri giovani a conoscere personalmente i concittadini di origine straniera insediatisi nella stessa città, nello stesso quartiere, nella stesso palazzo, è atto pedagogico per definizione. Quale altra è la missione di una scuola se non insegnare la comprensione del mondo in cui si vive? E quale metodo più efficace dell’apprendimento diretto, tramite casi di studio rappresentati da individui in carne ed ossa portatori di un’esperienza, l’immigrazione, che rappresenta sempre più la normalità di un’Europa mobile e culturalmente diversificata? Il caso ha voluto che, nello stesso torno di tempo, a Trieste si presentasse, nel palazzo della Regione, il Dossier Statistico Immigrazione 2017. Un rapporto che certifica, numeri alla mano, la trasformazione della nostra società determinata dall’immigrazione. 20.263 i cittadini stranieri residenti in provincia di Trieste, l’8,8% della popolazione. 104.276 quelli che vivono in Friuli Venezia Giulia. Per un totale a livello nazionale di oltre cinque milioni di persone. Il cui lavoro porta nelle casse dello Stato 127 miliardi di euro, l’8,8% del Pil. Sono cifre che fanno riflettere, e denotano la necessità di una riflessione da impostare a tutti i livelli, scuola compresa. Checché ne pensi chi ritiene che entrare in contatto con i migranti significhi andare “allo sbaraglio”, lo straniero è parte integrante della nostra vita quotidiana. È un elemento ineludibile del paesaggio sociale. Lo si chieda agli alunni delle nostre scuole, abituati ad avere compagni di banco di svariate provenienze. Se c’è una cosa “incosciente e irresponsabile” è insegnare loro che parlare con i genitori di Mohammed, Pavel o Didier è pericoloso, tabù. Sfiora l’assurdo, montare un caso su un compito a casa perfettamente rispondente alle esigenze del nostro tempo, che sono ribadire la necessità dell’apertura e la desiderabilità della tolleranza. Chi meglio degli insegnanti può avviare le nuove generazioni ad assumersi la responsabilità di costruire un mondo migliore? È urgente ed inderogabile spiegare ai nostri figli che quei loro coetanei dal cognome ostico sono uguali a loro. Dobbiamo farlo ora, prima che sia tardi. Perché l’immigrazione non è un fenomeno contingente, anzi. Secondo le proiezioni demografiche dell’Istat, fra circa cinquant’anni in Italia potrebbero esserci non cinque, ma 14,1 milioni di stranieri, e 7,6 milioni saranno gli italiani di origine straniera. Un terzo della popolazione, quindi, avrà un background etnico e culturale differente. Alla luce di tutto ciò, è imperativo attrezzarsi. Fornendo alle nuove generazioni gli strumenti per orientarsi in una società che, per rimanere unita, deve eliminare preconcetti e pregiudizi. E il modo migliore per farlo è guardarsi negli occhi ed ascoltare.
La scuola deve insegnare a capire l’immigrazione
Pubblicato il 29/10/2017 - Il Piccolo
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