E un problema di difficile risoluzione quello del referendum indipendentista catalano. Di fronte alla sfida di Barcellona, Madrid ha optato per la linea della fermezza, dichiarando illegale la consultazione prima e traendo in arresto poi i funzionari regionali coinvolti nell’organizzazione del voto. Dal punto di vista dei secessionisti, si tratta di un atto illiberale che riporta ai tristi giorni del franchismo, repressore delle libertà locali e, invero, di tutte le altre. Ma Madrid non può fare altro che richiamarsi alla supremazia della giurisdizione nazionale, che via corte costituzionale ha sancito l’illegittimità del referendum. È il suo punto di vista, legittimo quanto quello di chi, in Catalogna, si appella alla democrazia per sostenere che solo il popolo ha il diritto di esprimersi in materia di sovranità. Ora, dinanzi alla prova di forza di Madrid, si aprono numerosi scenari, non tutti piacevoli. La Generalitat catalana annuncia la propria volontà di tirare diritto: il 1 ottobre le urne si apriranno come stabilito dall’assemblea regionale, che ha già approvato la legge che dovrebbe governare, in caso di vittoria indipendentista, la transizione repubblicana. Madrid dal canto suo agisce in modo preventivo, sequestrando il materiale elettorale e minacciando provvedimenti giudiziari coloro che, a partire dai sindaci, si adopereranno per far sì che il voto si tenga. Gli scontri di piazza avvenuti in queste ore, con la Guardia civil impegnata a sedare una possibile rivolta, sono l’avvisaglia della potenziale deriva di questo conflitto di poteri. Guerra civile alle porte, dunque? Per ora, l’unica cosa che possiamo fare è constatare l’ambiguità del solo potere sovraordinato rispetto a quelli di Madrid e di Barcellona: l’Unione Europea. Che sceglie di tacere, tifando in silenzio per lo status quo. Bruxelles sa bene che la secessione catalana aprirebbe le porte ad altre fratture, quelle che il fiume carsico del revival etnico degli ultimi decenni hanno più volte prospettato. L’Europa dei popoli è più di uno slogan: è una realtà culturale sedimentata che i nazionalismi hanno cercato di sedare con costose elargizioni. Il fenomeno non si registra peraltro nel solo Vecchio Continente. Ha cominciato il Quebec, parecchio tempo fa, a manifestare insofferenza verso le istituzioni centrali. Ma lo Stato del Quebec non nacque. I baschi ci hanno provato con le armi, salvo abbassarle di fronte alla tenace resistenza spagnola. Il referendum scozzese di tre anni fa finì con un fallimento. Per guadagnare l’indipendenza, il Kosovo dovette attendere l’intervento della Nato in una terra, i Balcani, che conobbe negli anni ’90 le conseguenze estreme dell’odio interetnico. La verità è che, in assenza di favorevoli condizioni interne ed internazionali, una minoranza che ambisca all’autogoverno non centrerà il proprio obiettivo. Alla consultazione informale del 2014, i catalani votarono in maggioranza per la secessione, ma il quorum fu di appena un terzo degli aventi diritto. Recenti sondaggi in Catalogna stimano al 48% il fronte pro indipendenza. Madrid lo sa, e può permettersi di rischiare.
Quell’ambiguo silenzio dell’Unione Europea
Pubblicato il 22/09/2017 - Messaggero Veneto
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