INDICE
- Premessa: Bruno Tellia
- Religione e istituzioni religiose nel percorso di inserimento degli immigrati: Bruno Tellia
- Comunità cattoliche: Marco Orioles
- Chiese ortodosse: Anastasiya Zayakhanova
- Chiese protestanti e movimenti evangelici: Elisa Filiputti
- L’islam in Friuli Venezia Giulia: Marco Orioles
- Religioni orientali: Marco Orioles e Anastasiya Zayakhanova
- Un’esperienza di dialogo istituzionale: Elisa Filiputti
- Tabelle riepilogative dei gruppi religiosi
- Bibliografia
Il pluralismo culturale e religioso è sempre più la cifra delle società contemporanee. I processi migratori e l’innesto di gruppi con radici culturali e tradizioni spirituali differenti stanno rendendo sempre più composita l’identità delle nazioni. I paesi europei sono oggi un mosaico di popoli, culture e fedi: cristiani delle più diverse confessioni (cattolici, ortodossi, protestanti) convivono fianco a fianco con ebrei, musulmani, buddhisti, induisti, sikh, baha’i, animisti e ogni altra espressione della diversità umana, sia essa patrimonio di gruppi ristretti o di minoranze consistenti ed organizzate. Negli spazi urbani fanno la loro comparsa edifici che ospitano simboli e fermenti religiosi che rendono quanto mai articolata la vita delle città. L’apparire di questo fenomeno sulla scena del Friuli Venezia Giulia è al centro del progetto di ricerca promosso dall’Università degli Studi di Udine su iniziativa del sociologo Marco Orioles, col coordinamento di Bruno Tellia e il sostegno della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. Nell’arco di un anno di lavoro sono stati censiti tutti i luoghi di culto istituiti sul territorio regionale dai gruppi di immigrati. Attraverso colloqui in profondità coi vari leader, è stata ricostruita la storia di ogni centro, definito il profilo sociologico dei frequentanti e descritte le attività che vi hanno luogo. Dati e caratteristiche di ogni centro sono riepilogati in dettagliate schede informative. Le comunità islamiche sono state monitorate e descritte da Orioles, che si è occupato anche di quelle cattoliche e, con A. Zakayanova, delle religioni orientali. Elisa Filiputti è autrice del capitolo sulle chiese protestanti e della nota su un’esperienza di dialogo istituzionale. I capitoli introduttivi sono di Bruno Tellia.
Marco Orioles, Friuli Venezia Giulia Dar al Islam
ESTRATTO DA Tellia B. (a cura di), Immigrati e religioni. Il nuovo pluralismo delle fedi in Friuli Venezia Giulia, Roma, Aracne 2010.
1. Prologo
Dar al Islam. Quest’espressione araba, che significa letteralmente “casa dell’islam”, indica gli spazi geografici in cui è stato accolto il messaggio di Maometto, fondatore della religione e delle civiltà musulmane. Si tratta di una casa molto grande. Dalla sua terra d’origine, l’Arabia delle città di Mecca e Medina, l’islam ha infatti esteso ben presto la sua influenza in un arco geografico che va dal Nord Africa all’India: dalle terre del Maghreb (l’Occidente dove il sole tramonta) a quelle del Mashreq (l’Oriente da cui l’astro luminoso sorge).
Oggi, a quasi millequattrocento anni dall’avvento dell’islam, il Dar al Islam comprende anche l’Europa, dove milioni di cittadini musulmani di varie nazionalità sono emigrati portando con sé il proprio retaggio culturale e religioso. Il Friuli Venezia Giulia è parte integrante di questa espansione realizzata, a differenza di altri casi della storia islamica, con mezzi pacifici. Friuli Venezia Giulia come Dar al Islam. Nel corso di questo lavoro vedremo con quali forme e modalità l’islam si stia radicando nella nostra regione. Prima, però, sarà bene spendere qualche parola sulla parabola della seconda religione del pianeta, professata secondo alcune stime da ben un miliardo e pezzo di persone.
L’islam esordisce sulla scena della storia nel 610 nella città della Mecca. Qui, nel 570, nasce Muhammad, membro del clan dei Banu Hashim (gli hashemiti cui appartiene l’attuale dinastia regale della Giordania) e della tribù dei Quraysh. Il 610 è l’anno in cui il futuro profeta comincia a ricevere la rivelazione di Allah, che più tardi sarebbe stata racchiusa nel Corano. La nuova religione, che prende progressivamente forma con la discesa dal cielo dei versetti coranici, rappresenta un’innovazione rivoluzionaria per l’Arabia politeista. L’islam si presenta infatti come una religione rigidamente monoteista, che predica l’esistenza di un solo Dio alla stregua dell’ebraismo e del cristianesimo, di cui l’islam si ritiene la naturale prosecuzione. La sua affermazione incontra non a caso notevoli resistenze. La predicazione di Maometto suscita la diffidenza se non l’ostilità delle diverse tribù arabe, refrattarie a rinunciare al culto dei propri innumerevoli idoli. La nuova religione porta con sé anche una seconda, profonda rottura: essa pretende di sostituire la fedeltà esclusiva ai legami tribali con una nuova solidarietà orizzontale ed universalistica, da attribuire questa volta all’intera comunità dei musulmani, la Umma.
L’atteggiamento di chiusura dei suoi concittadini, ben pochi dei quali aderiscono alla novella religione (la prima musulmana della storia è, secondo le cronache, la prima moglie di Muhammad, Khadija), spingerà Maometto a trasferirsi nel 622 a Medina assieme ai suoi sparuti discepoli meccani (Muhajirun, “emigrati”). A Medina, il profeta viene accolto con tutti gli onori dai suoi abitanti (Ansar, “ausiliari”) che, in buona parte, si convertono all’islam. La tradizione chiama Egira lo spostamento a Medina di Maometto e dei suoi seguaci. Si tratta di un momento fondamentale nella storia musulmana, che proprio dal 622 fa cominciare il suo calendario. È l’anno zero dell’islam.
Nella nuova città, Maometto da leader religioso diventa anche leader politico, racchiudendo nella sua figura Chiesa e Stato (uno sviluppo destinato a pesare non poco sulla fisionomia dei vari regni e stati islamici sorti in seguito, entità che non conosceranno per l’appunto quella separazione tra Chiesa e Stato così caratteristica dell’odierno Occidente). A Medina, il profeta dà forma e sostanza alla nuova Umma musulmana, plasmandola secondo le prescrizioni divine e offrendole nuove istituzioni. Le leggi e la morale dell’islam rompono come già detto drasticamente con le tradizioni dell’Araba preislamica, la cui storia è definita dal nuovo culto come Jahiliyya, l’età dell’ignoranza. Usanze antiche – come, per citare la più pregnante, l’infanticidio – vengono abrogate, sostituite dal nuovo ordine islamico. A Medina, Maometto continua a ricevere da Allah nuovi versetti e capitoli (sure) – che saranno definiti appunto “medinesi”, che si affiancano a quelli “meccani” nella cornice della rivelazione coranica. La parola di Dio che continua a discendere sul suo messaggero coprirà man mano tutti gli aspetti della vita sociale, culturale, politica ed economica. I seguaci interrogano Maometto su tutti i versanti della loro esistenza, e ad ogni questione risponderanno nuovi versetti.
Guida spirituale e politica dei medinesi, Maometto riveste anche il ruolo di leader militare. Il profeta è infatti costretto a misurarsi con le armi con le tribù che non accettano il suo invito alla conversione, quelle ebraiche in primis. La natura guerriera della nuova religione, ben rivelata dal concetto di jihad (letteralmente “sforzo”, ma più noto con l’accezione di “guerra santa”), deve molto a questi primordiali scontri. Nonostante le alterne fortune sul campo di battaglia, l’islam riesce infine a prevalere. Nel 630, anno ottavo dell’era islamica, Maometto entra vittorioso alla Mecca, i cui abitanti si affrettano a giurargli fedeltà pronunciando quella dichiarazione di fede (Shahada) che costituisce il primo “pilastro” dell’islam: “Attesto che non vi è divinità all’infuori di Dio e attesto che Muhammad è l’Inviato di Dio” (ashhadu an la ilaha illa Allah wa ashhadu anna Muhammadam rasul Allah). Il vittorioso Maometto può ora entrare nella Kaba, il tempio meccano venerato dagli arabi preislamici e tutt’oggi considerato dai musulmani come luogo sacro per eccellenza, e distruggervi tutti gli idoli ivi contenuti. È il trionfo del Dio unico sull’ancestrale politeismo d’Arabia.
Maometto muore nel 622, senza lasciare successori: i figli maschi avuti dalle sue numerose mogli infatti muoiono tutti prematuramente. Solo ‘Ali, suo cugino e genero, avendo sposato la di lui figlia Fatima, può rivendicare un legame di sangue col profeta. Ma al principio dinastico, la comunità musulmana orfana del suo capo preferirà un altro principio di designazione. La mancata nomina di ‘Ali costituisce per inciso un passaggio fondamentale e drammatico della storia islamica, perché è in seguito ad essa che si delinea la prima, grande divisione della comunità musulmana: quella tra gli sciiti, i “partigiani” (di ‘Ali) o “scissionisti”, e i sunniti (da Sunna, la tradizione profetica), che rappresenteranno sino ai giorni nostri la corrente maggioritaria dell’islam. Dopo una consultazione tra i Compagni di Maometto, tra coloro che gli sono stati più vicini e che per primi hanno abbracciato l’islam, viene scelto il primo Khalifa (letteralmente, “vicario”, nel senso di rappresentante pro tempore della volontà divina) della storia musulmana. È Abu Bakr, che regna dal 622 al 624. Gli succederanno rispettivamente ‘Uthman, ‘Omar e lo stesso ‘Ali, che dovrà tuttavia rinunciare al trono in favore del suo rivale Muhawiya, governatore di Damasco e capostipite della prima, vera dinastia islamica: quella Omayyade (dal nome di uno dei clan della tribù coreiscita, la stessa di Maometto). Con l’avvento degli Omayyadi si chiude la prima fase della storia islamica, tramandata come l’era dei quattro califfi cosiddetti “ben guidati”, ispirati dal vivo soffio della rivelazione profetica.
Sotto questi ultimi, il califfato islamico si espande fulmineamente, incorporando man mano nuovi territori e formando così un nuovo, potentissimo, temuto impero. Palestina, Siria, Egitto, Marocco, Tunisia Persia, India: le conquiste dell’islam dei califfi rappresentano un capitolo fondamentale della storia umana. Sia pur obtorto collo, i popoli assoggettati riconoscono la nuova religione universale, convertendosi in massa. L’islam d’ora in poi non sarà più esclusivamente arabo, ricomprendendo nel suo seno numerose altre etnie e lingue. Gli Omayyadi e i loro successori, gli Abbasidi, regnano su uno spazio immenso, destinato ben presto a confinare e collidere con i territori della cristianità. Quest’ultima si vede scippare la Spagna (Al Andalus), in un movimento espansionistico che solo la battaglia di Poitiers riesce a fermare alle porte della Francia. Anche la Sicilia cadrà sotto l’onda d’urto degli invasori, che in oltre due secoli di dominazione apporteranno un contributo decisivo all’identità dell’isola: secondo Leonardo Sciascia, la storia del popolo e della cultura di Sicilia comincia solo con il dominio islamico.
Persa la grande isola mediterranea prima e l’Andalusia poi (la reconquista), i musulmani si riaffacceranno minacciosi in Europa nel XIV secolo. Ora però sono i turchi, cui era passato il testimone della potenza imperiale islamica, a calcare il palcoscenico della storia. I sultani turchi si annettono i Balcani, lasciando anche qui la duratura impronta della religione e della cultura islamiche. Un secolo più tardi cade anche Costantinopoli. Duecento anni dopo, una nuova avanzata turca viene arrestata per un soffio sotto le mura di Vienna. L’esito negativo dell’assedio viennese sancisce l’inizio del declino musulmano. L’era dell’islam imperiale e dominatore terminerà formalmente subito dopo la prima guerra mondiale, quando viene deposto l’ultimo sultano turco ottomano. Comincia così, con un tonfo gravido di risvolti politici, l’era degli stati nazionali a maggioranza islamica, gli stessi più o meno che sono presenti oggi nella mezzaluna che va dall’Indonesia al Marocco.
Proprio come il sultanato ottomano, i paesi musulmani del XX secolo devono misurarsi con pungenti dilemmi. La modernità, la superiorità militare, economica e tecnologica dell’Occidente colonialista, l’emergente cultura dei diritti dell’uomo: tutto ciò al tempo stesso attira e ripugna, generando l’insormontabile contraddizione tra il timido affacciarsi di una riflessione modernista, il disagio delle masse escluse dal potere e dal benessere ed il rancore di una parte dell’intellighenzia musulmana. Il rigurgito sembra alla fine prevalere, alimentando un revival religioso in chiave fondamentalista e anti-Occidentale che culminerà con la rivoluzione iraniana del 1979.
Nello stesso torno di tempo, prende il via la grande emigrazione dei musulmani verso l’Occidente. Preceduti dalle migrazioni interne alla sfera di influenza francese, le ondate turche dirette verso la Germania dei primi decenni del secondo dopoguerra e i successivi, consistenti flussi verso altre destinazioni europee provocheranno un po’ ovunque la nascita di consistenti minoranze musulmane. Paesi come la Gran Bretagna varano generose ma poco lungimiranti politiche multiculturaliste, che hanno il solo effetto di moltiplicare i ghetti musulmani. L’affaire francese del chador del 1989 metterà definitivamente a nudo la dimensione problematica dell’integrazione dell’islam in Europa, sulla scia di quanto farà dieci anni più tardi la tragica ascesa del terrorismo global-jihadista di Osama bin Laden. Nel frattempo, i musulmani europei sono diventati venti milioni, una proporzione che rende vistosa e ineludibile la questione della loro inclusione nelle diverse comunità nazionali. La lealtà dei musulmani sembra essere attualmente contesa dal massimalismo integralista di non poche moschee d’Europa da un lato e dalla visione di un Euro-islam compatibile con i valori occidentali dall’altro. Il confronto è ancora lontano dal raggiungere una composizione. La nostra ricostruzione si ferma qui, anche se molto resterebbe da dire e molto non è stato detto. La nostra ambizione, d’altro canto, non era di fornire un compendio onnicomprensivo della storia dell’islam, ma di delinearne le tappe essenziali. Volgiamo ora l’attenzione invece – anche qui, in modo sommario – sulle caratteristiche della religione islamica.
L’islam presenta apparentemente un gradiente di complessità inferiore rispetto ad altre religioni. Per essere riconosciuto come autentico musulmano, un credente deve in teoria semplicemente osservare i cosiddetti cinque pilastri dell’islam. La già richiamata dichiarazione di fede, anzitutto. Passaggio fondamentale quando si trattava di ripudiare il politeismo in favore del monoteismo, la formulazione della Shahada scandisce i momenti principali della vita quotidiana del musulmano. Il secondo pilastro è la preghiera (Salat), o meglio, le cinque preghiere giornaliere. Queste vanno compiute preferibilmente nella moschea, assieme ai propri confratelli, ma possono essere effettuate anche da soli, sotto le mura domestiche, nel luogo di lavoro o addirittura per strada. Basta che la preghiera sia fatta sopra un tappeto, e che l’orante si rivolga nella direzione della Mecca (Qibla). Il terzo pilastro è l’elemosina (Zakat), minuziosamente regolata in funzione delle possibilità economiche del credente. Questi è chiamato ad esprimere concreta solidarietà verso i poveri ed i bisognosi, sancendo così l’unità della Umma e rimuovendo le valenze negative che possono essere attribuite alla ricchezza. Il quarto pilastro è il digiuno nel mese di ramadan, un periodo sacro nella vita dell’islam perché è in esso che Maometto ha ricevuto la rivelazione. Astenersi dal cibo, dalle bevande e dall’atto sessuale (ma anche dal fumare, dall’inspirare profumi, dal toccare alimenti pur senza ingerirli e dall’inghiottire un’eccessiva quantità di saliva) rappresenta un motivo di purificazione, un atto di disciplina molto apprezzato da Allah. Quinto ed ultimo pilastro è il pellegrinaggio alla Mecca (hajj), da compiersi una volta nella vita, almeno da parte di chi ne ha la possibilità e gode di buona salute.
La semplicità di questi precetti non deve trarre in inganno. Se infatti, da un punto di vista squisitamente teologico, l’islam non presenta dogmi ulteriori rispetto al riconoscimento dell’unico Dio, sotto altri fronti, a partire da quello morale ed etico, la religione di Maometto esibisce un notevole grado di complessità. È stato giustamente affermato che l’islam, più che un’ortodossia (ossia, una retta dottrina), è un’ortoprassi (un retto comportamento). Il Corano infatti, unitamente alla cosiddetta Sunna (i detti e fatti del profeta noti come hadith, che sono parecchie migliaia e ai quali viene attribuito un valore non inferiore al testo sacro) nonché alle sterminate rielaborazioni ed interpretazioni compiute dai sapienti dell’islam (‘ulama) o dai dottori della legge, regolamentano rigidamente gli atteggiamenti e gli aspetti formali (zahir) del comportamenti del fedele. La vita matrimoniale, i rapporti tra i sessi, le relazioni commerciali, la guerra, sino agli atti più minuti della vita quotidiana: l’imperialismo normativo dell’islam è decisamente notevole. Ben poco è lasciato all’arbitrio del singolo.
Non a caso, i primi secoli della storia islamica sono stati scanditi da una fitta elaborazione giuridica, volta a definire una volta per tutte il corpus di leggi che deve regolamentare l’esistenza del musulmano. Il corpus in questione è noto come la shari’a, letteralmente “la via”: sono le norme, le indicazioni, i dettami contenuti nel Corano e nella Sunna che la giurisprudenza islamica (fiqh) è chiamata a tradurre in forma di normativa valida erga omnes. Questo fitto lavorio è culminato nella formazione delle quattro principali (le uniche sopravvissute al logorio del tempo) scuole giuridiche musulmane: la hanafita, la shafita, la malikita e l’hanbalita. Ogni scuola rivaleggia con le altre nel definire sino al più minuto dettaglio i comportamenti del probo musulmano. Ciascun fedele, in teoria, dovrebbe riconoscersi in una delle quattro scuole e conformarsi alle sue prescrizioni. Di fatto, ognuno si regola come può e vuole, attingendo ora ad una ora all’altra scuola, a seconda delle abitudini e delle convenienze.
Questa libertà del credente di aderire al filone che più gli si confà, ovvero a quello più radicato nel luogo in cui vive, è uno dei tratti definitori della religione islamica: una religione che non ha un vero e proprio clero e, quindi, un’autorità indiscussa. Nell’islam esistono semmai figure che – per il loro spessore intellettuale e la conoscenza approfondita della religione, delle sue dottrine, delle sue leggi e soprattutto dei loro innumerevoli interpreti – godono di alto prestigio agli occhi dei fedeli. Tuttavia persino i “pareri” (fatawa, sing. fatwa) emanati dalle più riconosciute autorità islamiche (come i muftì) per chiarire ogni aspetto non perfettamente definito dal o non ancora incluso nel iure islamico non hanno carattere vincolante. Sono, appunto, pareri, trattati cioè alla stregua di opinioni, anche se autorevoli. Anche quando si tratta della parola del sacro Corano, d’altronde, il fedele è di fatto invitato a compiere la propria lettura e la propria interpretazione.
Risiede proprio qui una delle criticità della religione islamica, criticità particolarmente avvertita nell’era contemporanea. Ci riferiamo, possiamo dirla così, al conflitto che oppone i fautori di un rigido letteralismo ai difensori della libertà interpretativa. I primi ritengono che Corano e Hadith siano la verità definitiva, la parola di Dio scesa sulla terra che dunque i fedeli non hanno il diritto di piegare con letture personalizzate. I più “moderati” in questo fronte sono coloro che, pur ammettendo la natura sacrale del Corano e dei detti e fatti di Maometto, accettano le elaborazioni compiute dai primi interpreti dell’islam, quelli più vicini all’era profetica. Dopo questi ultimi, secondo tale versione, la porta dell’Igtihad (interpretazione) si sarebbe definitivamente chiusa. Ai contemporanei non resterebbe così altro che attenersi scrupolosamente ad indicazioni risalenti o al profeta stesso o ad autori medievali. Non a caso, è questo il credo delle correnti più puritane, “fondamentaliste” rintracciabili ai giorni nostri, quali ad esempio il wahhabismo imperante in Arabia Saudita. L’altra posizione è quella di quanti ritengono che il Corano e la Sunna debbano essere contestualizzati, e dunque possano essere letti alla luce della realtà contemporanea, in funzione delle esigenze di fedeli che vivono in un mondo ben diverso da quello abitato da Maometto e dai suoi primi seguaci. Senza togliere valore alle verità della rivelazione, e all’esempio del profeta, questo fronte sostiene la validità di nuove interpretazioni rispondenti alle odierne necessità del musulmano. Questa, almeno, è l’idea difesa dai sostenitori di un islam “riformato”, “modernista”, e “umanista”: uomini per i quali la fede musulmana è compatibile con la modernità, purché non ci si appigli alla mera lettera di testi ed autori risalenti a mille o più anni or sono.
Queste due anime speculari si contendono oggi le sorti dell’islam tanto nei paesi musulmani quanto nell’Europa degli immigrati, dove maggiormente (anche se non esclusivamente: i riformisti esistono anche nei paesi musulmani, benché siano spesso costretti al silenzio) si avverte l’esigenza di adattare, adeguare, innovare la fede.
Per cogliere la divaricazione che sussiste tra queste due versioni dell’islam, l’esempio forse più calzante è la condizione femminile. È arcinoto come, nei paesi musulmani e soprattutto presso certi autori e autorità musulmani, il gentil sesso non goda degli stessi diritti conferitogli dalle società occidentali. Per giustificare questa realtà, i “neo-tradizionalisti” e i fondamentalisti si rifanno selettivamente ad alcuni versetti del Corano, nei quali la donna è presentata come un essere “inferiore” rispetto all’uomo, ovvero sottoposto rigorosamente all’autorità maschile, sia essa incarnata dal marito o dal padre o dal fratello. La sura (capitolo) delle donne, versetto 34, recita ad esempio così: “Quelle di cui voi temete il Nushuz (la ribellione contro l’autorità maschile, N.d.A.), consigliatele! Banditele nel loro letto! Picchiatele! Se esse vi obbediscono di nuovo, non usate più la forza contro di loro!”. Questione chiusa, punto e basta? Secondo la sociologa marocchina Fatima Mernissi, acuta e stimata sostenitrice della modernizzazione dell’islam, il problema non è affatto risolto. Anzi. Nell’opinione di Mernissi, quel versetto deve essere letto alla luce del momento storico a cui risale. Più che un’indiscutibile volontà divina, il versetto ed altri su questa falsariga tradiscono infatti secondo Mernissi un’esigenza assai mondana avvertita da Maometto: quella di non irritare troppo i neo-convertiti all’islam esigendo da loro il completo ripudio delle tradizioni pre-islamiche, in base alle quali la donna era per l’appunto possesso dell’uomo, in balia del suo volere. Ancora troppo fragile, al tempo in cui questo versetto sarebbe disceso sulla terra, era infatti il nuovo ordine islamico, che nella sua prima formulazione (quella della fase “meccana”) sanciva una dirompente concezione egalitaria. Per non alienarsi il favore dei nuovi fedeli, Maometto e il suo Dio avrebbero insomma rinunciato alle originarie aspirazioni, piegandosi alla realpolitik. Oggi, a 1.400 anni di distanza, quelle condizioni non ci sono più. Ergo, sostiene Mernissi, una rilettura generalizzata del Corano necesse est. S’impone. È imperativa. Irrinunciabile.
L’esempio che abbiamo fatto è solo uno dei molti. Esso ci aiuta a capire quale sia la lotta intestina che si combatte all’interno dell’universo musulmano contemporaneo. Attraversato da correnti di riforma così come da orientamenti più rigoristi, da sostenitori e detrattori della libera interpretazione dei testi, l’islam oggi è alle prese con pulsioni che ne determineranno la futura identità. Nel mondo musulmano come in Europa. Al momento, la partita è ancora aperta. Il dibattito continua, e noi italiani (e friulani) attendiamo di sapere come regolarci nei confronti della seconda religione del paese.
Anno di Pubblicazione
2010
Editore
Aracne